Abitualmente di Bioetica si parla poco sui grandi mezzi di comunicazione, tranne quando grandi temi o casi “clamorosi” giungono all’opinione pubblica, generando dibattiti spesso accesi e laceranti in quanto per lo più influenzati da fattori emotivi e ideologici o strumentalizzati da visioni politiche.
Questo argomento ha lo scopo di fare una carrellata sulle trasformazioni della relazione medico-paziente (RMP) dagli albori della medicina ai nostri giorni, cercando di calarsi in un contesto di etica applicata alla prassi clinica e di evitare il più possibile preconcetti su base teorica.
E’ indubbio che da Ippocrate ai nostri giorni moltissime siano state le trasformazioni e le conquiste della medicina, che hanno contribuito a migliorare sensibilmente la salute, la Qualità di Vita e l’età media della popolazione, oltre a sconfiggere malattie un tempo ritenute inguaribili; parallelamente a certi innegabili successi si è assistito ad una profonda trasformazione della RMP, che ha progressivamente abbandonato le sue caratteristiche psicologiche, relazionali e consolatorie basate sulla fiducia, sulla capacità d’ascolto e sull’empatia per incanalarsi sempre più su binari esclusivamente di tipo tecnico-scientifico.
Con l’esercizio odierno della medicina infatti la raccolta dell’anamnesi, l’esame obiettivo, la comunicazione della diagnosi e della prognosi sono andati sempre più sfumando la loro importanza, orientando invece la prassi clinica quotidiana a privilegiare gli esami di laboratorio o quelli radiologici, attraverso i quali spesso il paziente viene a conoscere la diagnosi, e la prognosi, della propria malattia, senza tenere in alcun conto variabili di grande rilievo come la sua personalità premorbosa , i suoi meccanismi difensivi , le risorse famigliari su cui può contare.
Non va dimenticato in proposito che l’atto medico è prima di tutto un incontro, basato sì su elementi tecnico-scientifici e operativi ma che non può prescindere dagli aspetti comunicativi, transferali, controtransferali ed etici che anche ai nostri giorni non possono essere trascurati.
La RMP nel periodo arcaico era essenzialmente di tipo magico-empirico, la malattia era vista come una sorta di punizione divina all’interno della quale la figura del medico assumeva valenze spiccatamente onnipotenti e sacrali, ponendosi egli come ponte tra il malato e gli dei e avvalendosi spesso di pratiche coreografiche e rituali esoterici nel tentativo di liberare il paziente dalle colpe commesse (relazione di tipo paternalistico le cui caratteristiche sono state molto difficili da eradicare fino a poche decadi or sono); tali valenze infatti perdurarono ancora a lungo, almeno in parte, anche nel Medio Evo e nel XIX° secolo, specialmente in certe società e culture caratterizzate da un pensiero ancora elementare, fino ad essere poi gradualmente abbandonate nell’epoca moderna e contemporanea a favore di una relazione di tipo utilitaristico o contrattualistico , oggi nettamente prevalente soprattutto nelle nazioni anglosassoni.
In queste trasformazioni è indubbio abbiano giocato un ruolo fondamentale due principali fattori: l’imporsi del Principio d’Autonomia (e delle sue emanazioni principali quali il Consenso Informato e le Direttive Anticipate) e l’irruzione a volte brutale nella RMP della Web Medicine.
Se l’imporsi del principio d’Autonomia era certo doveroso e necessario per portare il paziente al centro dei processi decisionali sui trattamenti che lo riguardano, in modo che la tanto decantata “centralità” non fosse solo uno slogan congressuale o una buona intenzione, l’entrata irruente di Internet in medicina ha certo comportato grandi sconvolgimenti nella RMP tradizionale.
Va sottolineato che il superamento del modello paternalistico della RMP era certo necessario (anche se specialmente in certi contesti di malattia invalidante e progressiva l’azzeramento di ogni autonomia rende indispensabile la riscoperta della Beneficialità-il “Bene” del paziente”- di derivazione ippocratica e cristiana), ma l’intervento di quel potente e spesso autoreferenziale mezzo di comunicazione rappresentato da Internet in medicina se ha comportato elementi positivi, che non si possono negare, ha anche inferto duri colpi alla RMP che ne è uscita profondamente stravolta tanto da necessitare di essere ridisegnata con grande attenzione, prudenza e buon senso clinico.
Certo è vero che alcuni cambiamenti positivi indotti dalla Web Medicine non possono essere ignorati, in particolare:
- la crescita della cultura medica della popolazione
- la possibilità di ricercare una seconda opinione, oltre a quella del proprio medico
- il desiderio di effettuare trattamenti diversi o ulteriori approfondimenti diagnostici
- la possibilità di migliorare strategie di prevenzione e attuare terapie o controlli a distanza con la telemedicina
- il conoscere tempestivamente i risultati dei trial clinici più recenti
- il confrontarsi a distanza con pazienti affetti dalla stessa malattia anche attraverso le associazioni di malati e famigliari
Se si analizzano invece anche gli aspetti negativi dell’uso indiscriminato e acritico del Web, non possiamo d’altra parte negare il grande rischio di certi fenomeni:
- il ricevere le notizie a pioggia vorticosamente e senza possedere le sufficienti capacità critiche e le conoscenze per valutarne le fonti e l’attendibilità
- la grande pericolosità dello scavalcamento del proprio medico curante, innescando pericolose derive di autodiagnosi e autocura
- le numerose fake news che vi compaiono, autolegittimantesi o dettate spesso da motivi esclusivamente di mercato e intrise da pesanti conflitti di interesse
- il favorire illusori “viaggi della speranza” nel tentativo di ricevere messaggi diversi da quelli prognosticamente sfavorevoli che il paziente può avere ricevuto dalla medicina ufficiale
- il frequente innesco della “cybercondria”, vissuto che induce il paziente a “sentirsi addosso” tutti i sintomi della malattia che sta leggendo
- l’incauto acquisto di prodotti farmaceutici, spesso privi di ogni controllo di qualità, a fini estetici, sportivi, sessuali etc. con conseguenze a volte disastrose
Visti ad una prima analisi gli aspetti positivi e quelli negativi della Web Medicine tenderebbero sostanzialmente ad equivalersi, anche se occorre evidenziare come la RMP dovrebbe basarsi su una conoscenza e una fiducia reciproche, oltre che sull’empatia e sulla relazione d’aiuto, componenti basilari e non accessorie dell’atto medico che nessun p.c. è in grado di sostituire.
Va poi sottolineato che il medico, che potrebbe sentirsi sotto accusa o non all’altezza di conoscere le più recenti acquisizioni diagnostico-terapeutiche, nel timore di sbagliare o di essere citato in giudizio (sempre più frequenti sono infatti le cause intentate dai pazienti nei confronti di medici o di strutture ospedaliere) potrebbe rifugiarsi nella sempre più dilagante “medicina difensiva”, prescrivendo numerosi esami difficili, costosi e talvolta inutili oppure delegando ad altri colleghi l’onere di certe decisioni difficili e problemizzanti.
E’ indispensabile, in conclusione, che i protagonisti dell’atto medico (medico, paziente e caregiver, il cui ruolo in certi contesti è da ritenersi fondamentale), mantengano sempre un rapporto di stima e fiducia che ricalca il modello dell’alleanza terapeutica , senza enfatizzare i grandi successi della medicina odierna che potrebbero slatentizzare nel medico pericolosi sensi di onnipotenza e nel paziente sentimenti di depressione, sfiducia o abbandono.
Occorre ricordare che, anche con le più avanzate tecnologie di cui oggi dispone, la medicina rimane sempre, come affermava Ippocrate, un’arte, una scienza che deve ancora convivere con tante variabili e con un certo margine di incertezza e imprevedibilità, da qui la necessità che non si perda mai la misura ed il senso del limite, elementi che non si apprendono sui libri ma che devono essere elaborati e introiettati con l’esperienza; in altre parole anche in ambito delle più elevate eccellenze scientifiche il medico non deve mai smarrire l’etica della cura, la capacità d’ascolto, l’empatia e l’accompagnamento relazionale anche nelle fasi avanzate di malattia a prognosi infausta, presupposti etici che non devono essere considerati opzionali ma basilari e parte essenziale delle proprie capacità cliniche e che dovrebbero essere più valorizzati a livello formativo nelle scuole degli operatori della salute.
Carlo, davvero complimenti per come hai sviluppato in modo chiaro le tue argomentazioni, che ti hanno portato ad affermare la necessità che i curanti scelgano di aderire alla “etica della cura”. Il mio dubbio è se questo è e sarà possibile in una realtà che è profondamente cambiata, anche – come fai notare – per la facilità di accesso all’informazione.
Nell’etica della cura l’autonomia del paziente è di tipo relazionale (penso che per il paziente si tratti di un’autonomia ‘debole’ visto il gap di conoscenze e di ruoli). Anche per dare spazio a forme di autodeterminazione più ‘forti’, credo che sia già oggi prevalente – ma che lo sarà di più in futuro – un modello di rapporto medico-paziente di tipo contrattualistico (invece che ispirato dalla ‘alleanza terapeutica’).
Il modello contrattualistico lascia però prive di difese le persone più fragili, e toglie a tutti quanti i benefici che derivano da un rapporto regolato anche dalle emozioni. Ti chiedo – e chiedo a tutti – se si può immaginare una terza via in cui la relazione fra medico e paziente si realizzi senza nessuna forma di paternalismo (quindi nel rispetto di un’autonomia ‘forte’ del paziente) e nel contempo all’interno di un rapporto anche emotivamente fondato.
Cari Carlo e Massimo,
mi ritrovo anch’io nelle vostre considerazioni e sottolineo che va sempre più sviluppata la relazione di ascolto non solo verso i pazienti ma anche nella collaborazione tra operatori sanitari. Rispetto al paziente ,per la mia esperienza particolare di radiologo ho riscontrato che un poco di equilibrato e coraggioso “paternalismo” a volte risolve delle situazioni e da fiducia a tutti.
un abbraccio Patrizio
Caro Massimo, grazie del tuo commento e della tua domanda; ovviamente ogni fenomeno va posto e inquadrato nel periodo storico e nel contesto socioculturale a cui si riferisce. Vi sono certe malattie in cui l’aspetto tecnico in senso stretto prevale nettamente e quindi il rapporto contrattualistico “potrebbe” forse andare bene, ma ci sono altre situazioni (tipo le malattie neurodegenerative, le malattie psichiatriche etc.) in cui l’autonomia del paziente è presssochè totalmente azzerata e quindi diventa imperativo riscoprire la beneficialità e con essa la relazione d’aiuto, una risposta ad un bisogno espresso o non espresso; siamo in questo caso ben lontani da una relazione contrattualistica professionista/cliente che esalterebbe fatalmente la medicina difensiva ma che vede medico e paziente veramente “compagni di viaggio” in una medicina della prossimità e della speranza in opposto ad una disperazione senza prospettive future.
E’ chiaro che la RMP non potrà mai costituire un tipo di rapporto “simmetrico” per la differenza enorme dei ruoli e dei vissuti, ma sta all’alleanza terapeutica, vista proprio in un senso ontologico-antropologico che riporta la medicina alle sue radici primarie, rendere tale rapporto il meno asimmetrico possibile. L’ascolto, la presenza, la continuatività nel tempo della presa in carico-quindi anche nell’accompagnamento di fine vita- sono fattori di responsabilizzazione del terapeuta, che da risposte non solo tecnico-scientifiche ma anche semplicemente “umane” alla sofferenza, rappresentano in altre parole istanze etiche fondamentali del lavoro del medico e fanno parte delle sue capacità cliniche. La terza via in altri termini -l’alleanza terapeutica- quanto meno deve essere il tèlos a cui dobbiamo tendere in quanto la scienza e l’etica non si escludono a vicenda ma possono e devono benissimo coesistere.
Carissimi, vorrei fare un commento sul tema della relazione medico-paziente (RMP) al tempo della web-medicine. Mi complimento prima di tutto per la chiarezza e l’accuratezza con cui Carlo, Patrizio e Massimo avete introdotto il tema e suscitato la riflessione. Dopo qualche giorno di meditazione – ma questo è solo il pensiero di un praticante della medicina, non certo quello di un esperto di bioetica – vorrei portare il mio contributo. Penso che si debba superare il dualismo tra modello paternalistico e rapporto di tipo contrattualistico semplicemente riconoscendo che tertium non datur. Si tratta cioè di fare una sintesi tra due elementi apparentemente contrapposti ma che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Il grosso problema che si pone, tuttavia, è che dal lato della medicina l’evoluzione del pensiero ha scavalcato i secoli mentre sul fronte dell’autonomia del paziente, concetto in cui credo fermamente, ci troviamo in un’epoca primordiale, praticamente si stanno muovendo i primi passi.
All’inizio del Novecento William Osler, uno dei padri della medicina moderna, sosteneva che scienza e umanesimo dovessero unificarsi e che la pratica della medicina fosse “un’arte basata sulla scienza, ma che è più difficile acquisire l’arte che la scienza” (Mangione S, Kahn MJ. The old humanities and the new science at 100: Osler’s enduring message. Cleve Clin J Med. 2019;86(4):232–235). Il concetto di humanitas come mestiere e come strumento di comunicazione affonda le radici nella storia dell’uomo. Per Cicerone gli uomini si distinguono dalle fiere perché sanno conversare ed esprimere con la parola i pensieri (per approfondire consiglio la lettura di Umano Inumano Postumano di Marco Revelli, Einaudi 2020). Pensando alla web-medicine possiamo arrivare a stabilire, quando si abbiano gli strumenti giusti e un po’ di fortuna, un contatto con la scienza ma certamente non arriviamo (per ora) ad una relazione di tipo umano. In questo senso un paziente può arrivare a sapere, prima che glielo prescriva il medico, qual è il farmaco appropriato per una data patologia, o quale è controindicato a causa di una comorbilità. Potrà anche stimare la probabilità, l’entità e la durata del beneficio che otterrà dalle cure, ma si perderà tutta la componente della relazione basata sull’ascolto, sull’empatia, sulla presa in carico globale della persona per avere non un singolo intervento ma un percorso. Anche questo il medico deve imparare a farlo. In tanti anni la visione paternalistica della medicina si è molto ridimensionata, anche se persisite una rilevante asimmetria, grazie anche agli esperti della comunicazione. Alessandro Lucchini (Dialogare bad news, Centopagine 2019) sostiene che “dialogo” significa interazione profonda: anzitutto il medico ascolta il paziente, per capire come comunicare, in quale ambiente, con quali toni e quale atteggiamento, con quale progressione e quale obiettivo. Per alcune discipline mediche, come l’oncologia, dove la scienza rischia di non avere risposte oltre un certo limite, la conservazione di una relazione umana credo debba rimanere ancora un punto di forza, con l’aiuto delle biotecnologie e della web-medicine.
Caro Francesco,
Sono d’accordo con quanto hai scritto. Aggiungo solo che il percorso di formazione medico va arricchito con la bioetica come contenuto istituzionale e non “optional”.
Sui limiti della Web medicina rispetto alla informazione medica dico solo che quando siamo personalmente coinvolti per un problema di salute, spesso internet ci manda in confusione e ci terrorizza. Ultima cosa che mi viene in mente e che la comunicazione va perfezionata e potenziata anche tra gli operatori sanitari uscendo dalla barriera disciplinare e professionale.
Mi fa piacere partecipare a questo Blog.
Un abbraccio Patrizio