Più di un terzo delle persone con infezione da SARS-CoV-2 sono asintomatiche. E’ questa la conclusione di un recentissimo articolo pubblicato sugli Annals of Internal Medicine.[i] Tuttavia, l’esito degli studi sierologici che sono stati effettuati – anche in Italia – suggerisce che il numero delle persone che sono venute a contatto con il virus senza avere sintomi possa essere maggiore.
Non è ben chiaro in che misura i soggetti infetti asintomatici siano in grado di trasmettere l’infezione ai loro contatti. In base a uno studio di piccole dimensioni, gli asintomatici e i pre-sintomatici (coloro che sono già infetti, ma non hanno ancora sviluppato i sintomi) contribuirebbero alla diffusione del virus in una percentuale superiore al 40%.[ii]
Basandosi sulle conoscenze disponibili, e in particolare sui risultati delle sperimentazioni che hanno dimostrato l’alta efficacia dei vaccini Pfizer e Moderna nel prevenire la malattia sintomatica da SARS-Cov-2, i decisori politici di molti Paesi hanno stabilito di offrire in via prioritaria questi vaccini alle categorie più a rischio di morte da Covid-19 e agli operatori sanitari (in quest’ultimo caso, per evitare che venga a mancare nell’emergenza chi deve curare i malati).
Date queste premesse, non sembrano esserci molte alternative ragionevoli ai criteri di priorità stabiliti dai decisori. In questo contesto, anche le critiche mosse da più parti al loro impianto presentano scarsa consistenza, perché l’unico dato robusto che è finora emerso dagli studi promossi dalle case farmaceutiche per la registrazione dei vaccini ha riguardato soltanto la loro capacità di proteggere le persone dalla malattia e, in particolare, dalla malattia severa.
La attuale scarsità di conoscenze certe sulla trasmissione del virus da parte dei soggetti asintomatici appare a prima vista sbalorditiva. Tanto che, a quasi un anno dalle prime infezioni dimostrate da SARS-Cov-2, e dopo che gli infettati hanno raggiunto ufficialmente i cento milioni nel mondo, qualcuno ha cominciato a chiedersi se non abbiamo perso delle opportunità per fare chiarezza sul ruolo della trasmissione asintomatica del virus, ad esempio per non avere integrato correttamente i test disponibili nella pratica clinica. [iii]
L’ultima delle occasioni perse dalla ricerca clinica, e certo una delle più clamorose, consegue dalle modalità con cui sono stati condotti gli studi che hanno portato all’approvazione da parte delle istituzioni competenti dei due primi vaccini “occidentali” per la prevenzione di Covid-19. Infatti, i protocolli di studio dei vaccini Pfizer[iv] e Moderna[v] non hanno previsto di valutare se la somministrazione del vaccino fosse in grado di prevenire la infezione virale nei soggetti vaccinati.
Ottenere questa informazione sarebbe stato teoricamente semplice: si sarebbe dovuto prevedere, nella scheda di follow up dei soggetti inseriti nello studio, l’esecuzione di un tampone molecolare naso-faringeo, ad esempio in occasione delle visite di controllo già programmate, indipendentemente dalla presenza di sintomi. Invece, questo non è stato fatto ne è previsto che verrà fatto nel prosieguo dello studio. In realtà, effettuando i tamponi molecolari soltanto in occasione delle visite programmate, non si sarebbero potuti rilevare tutti i casi di infezione che sarebbero occorsi durante il follow up, ma – vista la dimensione relativamente grande del campione di soggetti studiati, circa 40.000 soggetti per Pfizer e 30.000 per Moderna – si sarebbe potuta cogliere e misurare, se presente, la differenza fra il numero delle infezioni virali osservate nei soggetti vaccinati, rispetto a quello negli individui trattati con il placebo.
Invece, poiché nei protocolli clinici di Pfizer e Moderna non è stata inserita l’indicazione a eseguire la ricerca del virus, durante il follow up, in tutti i soggetti arruolati, ma solo in coloro che fossero divenuti sintomatici, è venuta a mancare l’informazione cruciale se i vaccini in esame fossero o no in grado di prevenire l’infezione da SARS-Cov-2. Questa conoscenza avrebbe costituito una risorsa di valore inestimabile, per definire i criteri di priorità nella somministrazione dei vaccini, nonché per motivare le persone a vaccinarsi (nel caso che gli stessi vaccini si fossero dimostrati in grado di prevenire l’infezione). Infatti, il sapere che chi è vaccinato è in grado di proteggere, oltre a se stesso, anche i propri conviventi e tutti coloro con cui viene a contatto, avrebbe incentivato molte persone, che sono oggi perplesse, ad accedere con maggior convinzione alla vaccinazione.
Appare difficile comprendere perché Pfizer e Moderna abbiano deciso di non includere nel protocollo di studio la ricerca molecolare della infezione virale da SARS-Cov-2, salvo che nei soggetti divenuti sintomatici. In effetti, non sembra che i costi dell’intera sperimentazione sarebbero potuti lievitare in modo significativo, introducendo l’esecuzione del test per la ricerca virale in occasione delle visite di controllo già programmate per i soggetti in studio.
Saranno probabilmente le stesse case farmaceutiche che spiegheranno, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane, il motivo della loro rinuncia a rispondere alla domanda se i vaccini da loro prodotti prevengano o non prevengano l’infezione.
Tuttavia, in attesa della loro risposta, si può ipotizzare che la formulazione di questi protocolli di ricerca da parte di Pfizer e Moderna possa avere avuto origine da una tendenza: quella di promuovere una ricerca clinica orientata a dimostrare la efficacia terapeutica del vaccino nei confronti del singolo individuo (in questo caso mirando a conoscere se la vaccinazione prevenga la malattia in ciascun vaccinato), più che diretta verso obiettivi di salute pubblica (nel caso specifico, cercando di comprendere se il vaccino impedisca la diffusione del virus nella comunità).
Per il futuro, si dovrebbe forse riservare uno spazio maggiore alla riflessione etica nelle fasi in cui si scelgono e si definiscono gli scopi della ricerca clinica applicata.
Con quali strumenti? Ad esempio, prevedendo che i comitati etici (o gli organismi equivalenti), invece di essere soltanto chiamati in causa per valutare l’ammissibilità di uno studio clinico già formulato e ad essi in seguito sottoposto, vengano interpellati in via prioritaria per contribuire alla definizione degli obiettivi della ricerca.
[i] https://www.acpjournals.org/doi/abs/10.7326/M20-6976
[ii] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33238813/
[iii] https://www.bmj.com/content/371/bmj.m4851
[iv] https://www.nejm.org/doi/suppl/10.1056/NEJMoa2034577/suppl_file/nejmoa2034577_protocol.pdf
[v] https://www.nejm.org/doi/suppl/10.1056/NEJMoa2035389/suppl_file/nejmoa2035389_protocol.pdf
A proposito di Etica e Covid19 ho letto con interesse un articolo su Science (ripreso e tradotto nel numero 1398 dell’internazionale) https://www.sciencemag.org/news/2021/02/aid-vaccine-research-uk-approves-deliberate-infections-volunteers-coronavirus
Da quanto ho letto, nel Regno Unito, è stato proposto a 90 volontari sani di farsi iniettare il COVID per testare una cura.
I “volontari” riceveranno un compenso di 4500 sterline.
Non ho le competenze tecniche per misurare l’impatto di tale ricerca, ma dopo la lettura di questo articolo mi chiedo:
– è giusto ricompensare i volontari che saranno quindi spinti da un interesse economico a partecipare al test?
– quale è il metodo più giusto per autorizzare o no une tale ricerca? il suo impatto sperato ?
– esistono metodi alternativi per poter limitare questa pratica ? Se sì, sulla base di quali fattori e fino a che punto essi devono essere privilegiati?
A presto,
Michele
Domande difficili, che credo non abbiano una sola risposta. Provo a fare qualche considerazione.
E’ giusto ricompensare, con denaro, i volontari di una sperimentazione? Se si accetta che si possa mettere a disposizione il proprio corpo in cambio di un compenso in denaro – come del resto si fa in molte situazioni non legate alla ricerca clinica – la risposta potrebbe essere sì. Il problema è che il crinale fra offrire un compenso in cambio della disponibilità del corpo e abusare del bisogno economico (o dell’incoscienza) dei volontari è maledettamene stretto.
La ricerca clinica è lecita, come previsto già dal Codice di Norimberga, se permette di ottenere “risultati fruttuosi per il bene della società, non ottenibili con altri metodi o mezzi di studio”. E’ difficile dire, senza conoscere i dettagli, se lo studio britannico soddisfi questa condizione.
Lo studio, peraltro, cerca di dare risposta a una questione fondamentale: se un vaccino anti-Covid prevenga l’infezione e non soltanto la malattia. Si tratta di una conoscenza che permetterebbe di pianificare la vaccinazione di massa in modo meno schizofrenico, e di dire a chi è stato vaccinato che cosa può e che cosa non può fare.
Probabilmente, questa informazione si poteva (e si può) ottenere anche senza infettare dei volontari, come è stato discusso nel post.
L’autorizzazione di una ricerca clinica (quindi anche di questa britannica) prevede l’approvazione di un comitato etico o di un organismo equivalente.
In generale, l’alternativa alla sperimentazione clinica sull’uomo è lo studio osservazionale dell’uomo. Lo studio osservazionale non presenta criticità etiche rilevanti (se non legate alla privacy dei dati dei soggetti in studio) perché i partecipanti non sono randomizzati e il ricercatore non interviene attivamente.
Gli studi clinici osservazionali sono stati (e sono tuttora) considerati non idonei a dare una risposta a molte domande cruciali, per la presenza, nei soggetti osservati, di troppe variabili confondenti, in aggiunta alla variabile oggetto della ricerca.
E’ però oggi possibile gestire enormi masse di dati con le tecniche informatiche e l’intelligenza artificiale. Un’ipotesi è che queste tecniche possano eliminare i fattori confondenti e permettere di osservare il comportamento delle variabili di interesse senza necessità di effettuare trial clinici controllati. Si tratta però per ora di un’ipotesi tutta da verificare.