La moralità dell’assistenza alla morte volontaria

– di Massimo Sartori –

La morte volontaria assistita

La morte volontaria (medicalmente) assistita comprende l’eutanasia e il suicidio assistito. Con l’eutanasia, qualcuno provoca direttamente la morte di chi volontariamente ne ha fatto richiesta. Invece, nel corso del suicidio assistito è la persona che desidera morire che assume da sé un farmaco letale che ha sollecitato e che le è stato fornito.

L’accesso alla morte assistita per coloro che considerano intollerabili le proprie condizioni di vita, di solito a causa di una malattia inguaribile, è attualmente consentito dalle legislazioni di alcuni Stati[1].

In Italia, il dibattito sulla sua legittimità è in corso da tempo e alcune proposte di legge che riguardano il fine vita sono state depositate negli ultimi anni presso la Camera dei Deputati. Tuttavia, come è noto, l’emergenza pandemica ha dirottato in altre direzioni le riflessioni e le deliberazioni dei decisori politici. In questo modo, nemmeno le sollecitazioni provenienti dalla Corte costituzionale (che con la sentenza “Cappato-dj Fabo” del settembre 2019 aveva stabilito che non è punibile, quando ricorrano alcune precise condizioni, chi presta aiuto a una persona che ha volontariamente scelto di morire) hanno indotto il Parlamento a legiferare in materia.

Argomenti morali a favore della liceità della morte volontaria

Molti autori ritengono che l’argomento più forte a favore della liceità dell’eutanasia volontaria e del suicidio assistito derivi dal principio di autonomia, che afferma il diritto di ogni persona ad autodeterminarsi. In questa prospettiva, l’unica limitazione all’esercizio dell’autodeterminazione è rappresentata dalla clausola che essa non deve causare danno ad altri[2]. La maggior parte degli esperti che riconoscono integralmente questo diritto, tuttavia, ritengono che esso, per quanto forte, non generi obblighi per gli altri, e non comporti così tout court il dovere da parte di terzi di aiutare a morire[3].

Invece, obblighi morali per gli altri possono derivare da un ulteriore argomento a favore della liceità dell’eutanasia e del suicidio assistito, che fa appello al principio di beneficenza. In base a questo principio, chi si trova nella posizione di poter alleviare la sofferenza di un altro, senza eccessivi costi per sé stesso, ha il dovere di farlo. Ne deriva che se una persona competente, malata e senza speranza, si trova in una situazione di agonia e di dolore e chiede aiuto per porre fine alla propria sofferenza, potrebbe esistere il dovere morale di provocarne la morte[4].

Le teorie morali e la morte volontaria

Non tutti, tuttavia, condividono queste conclusioni e il giudizio sulla legittimità morale dell’eutanasia e del suicidio assistito varia in rapporto alla concezione cui l’agente morale fa riferimento (consequenzialismo, deontologismo, eccetera).

Per chi si richiama all’utilitarismo “classico”, la morte assistita deve essere permessa, quando la persona che chiede di morire soffre irrimediabilmente e l’impatto psicologico, sociale e finanziario della sua scelta nei confronti della famiglia, degli amici e dei caregiver è in definitiva tollerabile.

Invece, per un kantiano, nonostante egli sia paladino dell’autonomia dell’individuo, ogni forma di suicidio è problematica. Infatti, secondo Kant, chi decide di darsi la morte tratta se stesso come una cosa, distruggendo la persona morale che è in lui.

Infine, la liceità della morte volontaria assistita è contestata con forza da chi aderisce alla concezione della santità della vita e talvolta anche da chi, prescindendo da un credo religioso, si appella all’esistenza di una ‘legge morale naturale’ che la proibirebbe.

Una riflessione di senso comune

Tralasciando le teorie morali e basandoci semplicemente su considerazioni legate al senso comune, sembra evidente che l’eutanasia volontaria e il suicidio assistito (per la realizzazione del quale, qualcuno deve fornire il farmaco letale) contraddicano una delle ingiunzioni morali più antiche e venerate: “Non uccidere”. Moltissime persone, del resto, hanno una forte intuizione che uccidere sia sbagliato.

Tuttavia, come è stato sottolineato[5], uccidere è moralmente sbagliato perché, generalmente, l’azione provoca un grande danno, definitivo e irreparabile, a chi viene ucciso. In questo senso, quello che vi è di sbagliato nell’uccidere è il risultato dannoso che l’atto va a provocare.

Al contrario, quando il miglior interesse della persona consiste nel morire subito, piuttosto che continuare a soffrire durante un’agonia prolungata e dolorosa, ed ella chiede di essere aiutata a porre fine alla propria vita, allora uccidere non appare più moralmente ingiusto. In tali circostanze, sembra invece iniquo cercare un senso di “purezza morale” appellandosi rigidamente a un’ingiunzione, quando l’obiettivo viene raggiunto a spese della sofferenza altrui.


[1]  https://en.wikipedia.org/wiki/Legality_of_euthanasia

[2] https://plato.stanford.edu/entries/euthanasia-voluntary/

[3] L. Vaughn, Euthanasia and Physician-Assisted Suicide, in “Bioethics. Principles, Issues and Cases”, Ed. Oxford University Press, New York, 2017, p. 630.

[4] D.W. Brock, Voluntary active euthanasia, “Hastings Center Report”, 22 (1992), pp. 11-12.

[5] T. Hope, “Medical Ethics. A very short introduction”, Ed. Oxford University Press, Oxford (UK) 2004, p. 24.

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