Il diritto del più debole
Quando pensiamo al rispetto del pluralismo culturale e linguistico, ci viene spontaneo collocare tale preoccupazione all’interno del contesto più idoneo a conseguire lo scopo dell’integrazione, quello scolastico. Giovani in una fase delicata, ma al tempo stesso promettente per il futuro sviluppo della loro personalità, si trovano a condividere per molte ore al giorno esperienze di forte impatto emotivo e intellettuale.
Se la scuola è un luogo privilegiato, sappiamo che questa opportunità non è data per tutti i paesi del mondo, quindi il privilegio si fa più tangibile quando si realizzi in luoghi accoglienti e diversificati dal punto di vista degli stimoli offerti. Ma questa apertura, che significa soprattutto accoglienza, può contenere al suo interno delle crepe imputabili in parte all’istituzione, che deve garantire l’applicazione di regole generali; in parte all’insegnamento, che deve preoccuparsi di fornire competenze e conoscenze da spendere nel contesto sociale; in parte agli studenti, che sono portatori di ricchezza, ma anche di diffidenza e di paura. Nello scontro inevitabile che sempre si verifica in ogni ambito sociale tra più forti e più deboli, il difficile compito della scuola consiste nel trovare il giusto equilibrio che salvaguardi la dignità e la libertà di espressione di ciascuno.
CASO “La Classe di Babele”
In una terza classe di un Istituto di istruzione secondaria superiore sono iscritti 33 studenti, numero molto elevato e composizione molto eterogenea, a causa della presenza di nove etnie diverse, oltre a quella italiana, prevalente. Ci sono una ragazza brasiliana, un ragazzo cecoslovacco, un filippino, un ecuadoriano, un egiziano, due marocchini, un peruviano, due rumeni, un profugo politico da San Salvador; inoltre ci sono dieci ripetenti della terza dell’anno precedente, sia italiani, sia di altre etnie; le ragazze sono soltanto due. Agli insegnanti risulta immediatamente la complessità della situazione: si tratta di adoperarsi per conseguire due risultati, cercare di comporre le differenze culturali e linguistiche per creare un ambiente accogliente e collaborativo, svolgere in modo adeguato i programmi scolastici. Il ragazzo cecoslovacco e quello ecuadoriano parlano e scrivono uno il francese, l’altro l’inglese, ma per l’italiano sono tagliati fuori; gli altri hanno situazioni differenti, alcuni arrivati in Italia da alcuni anni, altri nati in Italia. La situazione è quella tipica di una babele linguistica, accentuata dalle differenze di abitudini, da una diversa concezione dell’impegno scolastico e del ruolo dei docenti. I ripetenti creano poi un ulteriore clima di diffidenza, per l’inevitabile sensazione di essere stati vittime di un’ingiustizia; le due ragazze si trincerano dietro uno schermo protettivo.
Mentre gli insegnanti di materie scientifiche sono facilitati dall’universalità del linguaggio matematico e informatico, quelli di materie letterarie si trovano di fronte a un muro, perché se non si padroneggia bene una lingua, diventa difficile discettare di argomenti letterari o storici. Inoltre è necessario tener conto delle diversità di carattere: a individui più miti e remissivi fanno da contraltare individui polemici e aggressivi, altri maturi e collaborativi tentano delle mediazioni di esito non sempre sicuro. Lo scenario caratterizzato da tali diversità pone interrogativi sul piano del conseguimento del successo formativo: una scuola superiore deve porsi l’obiettivo di condurre gli alunni verso un esito scolastico che li prepari all’inserimento nel mondo del lavoro o al proseguimento degli studi di carattere universitario. Il concetto di diversità risulta in questo caso declinato in tutte le sue possibili accezioni: culturale, linguistica, di genere, scolastica, di carattere.
In alcuni momenti la tensione all’interno della classe si fa molto pesante: incomprensioni tra studenti, tra docenti e studenti, tra i docenti stessi su diverse concezioni dell’insegnamento e sul modo in cui sia possibile conciliare il rigore professionale con l’accoglienza di realtà differenti. Il concetto di uguaglianza di tutti gli uomini, caro all’Illuminismo, subisce in questo caso un duro colpo? Trattare in modo uguale persone diverse costituisce una garanzia di comportamento giusto?
La natura problematica di questo caso permette di enucleare diversi dilemmi etici:
– Inserire in una stessa classe individui provenienti da esperienze così diverse non risponde esclusivamente a un principio astratto, difficile da conciliare con i problemi di un percorso di formazione?
– Se garantire uguali diritti a coloro che condividono una medesima esperienza è presupposto di salvaguardia della dignità personale, non sarebbe necessaria un’indagine preliminare che ne verifichi le condizioni?
– Se la libertà di espressione dovrebbe essere la condizione in cui sviluppare ogni processo conoscitivo, quando esistano profonde disparità, tale libertà è garantita?
– Il diritto alla formazione si esplica nel confronto sereno e libero da pregiudizi, una situazione di diffidenza, derivata da disparità di partenza, non è la negazione di tale diritto?
Nell’analisi del caso specifico è necessario soffermarsi su alcune questioni:
- Uno dei principi base della vita scolastica e associativa in genere è la fratellanza: nel caso esaminato esso è stato perseguito o disatteso? A beneficio e/o a danno di chi?
- Diritti e doveri dovrebbero bilanciarsi in un contesto sociale che si ispiri alla giustizia; come si configura il bilanciamento in questo caso?
- Il limite alla libertà individuale, che consiste nel non calpestare quella di altri, come può manifestarsi nel caso in cui il suo esercizio cozzi con disparità così evidenti?
- Ampliando il discorso a tutti gli aspetti della personalità che la scuola dovrebbe salvaguardare e potenziare, quali sono gli aspetti protetti e quelli disattesi nel caso proposto?
- Se uno dei primi pronunciamenti su cui si fondano le moderne società di diritto parla di “ricerca della felicità”, possiamo affermare che in questo caso tale ricerca sia salvaguardata?
Grazie Luisa per avere sollevato tante domande interessanti. Spero che a qualcuna di esse darai anche tu la tua risposta.
Non ho esperienza del mondo della scuola, se non come ex studente e genitore di ex studenti, in periodi in cui i problemi erano in parte diversi. Benché poco competente, vorrei dire due cose.
La prima, banale, è che la scuola, preso atto della realtà (che può essere anche quella che descrivi nella classe di Babele), deve fare di tutto perché queste difficoltà diventino opportunità per studenti e insegnanti.
La seconda è una domanda cui spero che qualcuno possa rispondere. Che ne è della classe di Babele in tempo di DAD? È meglio o peggio?
Una classe cosiddetta multietnica è una classe che arricchisce e stimola con le sue diversità. Costringe l’insegnante a mettersi in discussione, a cercare nuove vie di comunicazione nello stimolare il coinvolgimento di tutti nel rispetto delle diverse sensibilità. Impresa non facile certamente, ma il lavoro dell’insegnante è proprio questo: unire senza uniformare, normare senza imporre.
Tu dici “una scuola superiore deve porsi l’obiettivo di condurre gli alunni verso un esito scolastico che li prepari all’inserimento nel mondo del lavoro o al proseguimento degli studi di carattere universitario?”
Questo è in effetti un problema soprattutto se ci si trova difronte a una classe molto eterogenea: “Volo basso e porto avanti tutti, o volo alto e lascio indietro il gruppo a favore di pochi?”
Qui sta la scommessa: riuscire a portare avanti tutti, dare a tutti gli strumenti per meglio percorrere le loro strade, strade inevitabilmente le più disparate.
Ho svolto per quarant’anni il “lavoro” di insegnante e ogni giorno mi sono sempre svegliato felice di incontrare i miei ragazzi, tutti uguali e tutti diversi. E quando oggi li incontro chi banconista al supermercato, chi amministratore delegato a un convegno industriale voglio illudermi che questa scuola tanto bistrattata sia riuscita nell’impresa di accompagnare entrambi nei loro percorsi di vita.
Se così fosse, scommessa vinta!
Sulla DAD, e rispondo a Massimo, vi sottopongo, per sdrammatizzare, questo link ….
https://youtu.be/n6FkhhH5O2c
Ringrazio il collega Andorno per essere intervenuto nel merito delle questioni da me sollevate. Premetto che anch’io ho svolto per circa quarant’anni il “lavoro” di insegnante nella scuola secondaria superiore, sempre con grande entusiasmo e in media con buoni risultati, con alcuni studenti ho ancora contatti, tramite Facebook o mail. Ma non è questo il punto: volevo sollecitare, con l’esempio della classe di Babele, una riflessione più nello specifico, e non semplicemente richiamarmi a principi generali che, suppongo tutti, condividiamo. Io quella classe l’ho avuta davvero ed era composta proprio come ho detto da 33 studenti, suddivisi esattamente nel modo che ho indicato, era una terza di un indirizzo di Informatica. Molti di noi erano insegnanti di lunga esperienza, abituati a declinare il programma in tutte le modalità consentite, a interporre pause di riflessione, corsi di recupero e, per quanto mi riguarda, inventare tecniche di approccio alla lingua italiana attraverso la lettura di romanzi o altro, per alleggerire lo svolgimento del programma, che il terzo anno prevede di partire dalle origini della lingua italiana, quindi con un approccio un po’ ostico anche per chi la lingua la padroneggia.
Secondo quanto abbiamo sperimentato, inserire in una classe, secondo il principio di equipollenza, studenti più o meno della stessa età, ma con un retroterra così diverso, risponde sì a un criterio di giustizia, ma talmente astratto, da rendere impossibile nei fatti di esercitare quella giustizia in modo concreto ed efficace. In concreto la maggior parte di quegli studenti si è sentito così privato del diritto di accedere a un percorso di formazione, che ha sviluppato atteggiamenti oppositivi, quando non addirittura aggressivi, quando avrebbe avuto diritto invece a un trattamento più specifico, magari con un percorso a latere, per ovviare alle lacune di comprensione, accesso che i normali corsi di recupero non potevano certo saturare.
In conclusione: alla fine dell’anno quella classe è stata dimezzata, bocciati 16 studenti, l’altra metà promossa o con debito formativo a settembre; l’anno dopo a quella classe sono stati aggiunti 7 studenti, ripetenti dallo stesso istituto o provenienti da altro istituto, la classe è risultata così composta da 24 studenti, quindi più gestibile, dirà chiunque, certo sul piano della trattabilità degli studenti, ma quella ferita è rimasta e non si è sanata, meno danni, meno morti, ma uguale debolezza. Alla fine dell’anno nuovo dimezzamento,11 bocciati tra giugno e settembre, la quinta dei reduci era composta da 13 studenti, poi arrivati all’esame soltanto in 8.
A quale “ricerca della felicità” abbiamo provveduto per mantenere saldo il principio astratto dell’inserimento dei diversi ma uguali per età?