Quali sono i motivi per cui oggi, in un Paese ad economia avanzata e in cui è garantito l’accesso alle cure mediche, un paziente dovrebbe accettare di partecipare a un trial clinico controllato e randomizzato? Credo che i motivi in base ai quali un paziente può decidere di far parte di uno studio sperimentale siano essenzialmente due.
Il primo motivo è “per contribuire, con la propria partecipazione, all’avanzamento delle conoscenze scientifiche e, di conseguenza, al benessere comune”.
Il secondo motivo è “per il desiderio di accedere al miglior trattamento possibile per la patologia da cui è affetto”.
La prima motivazione è razionalmente valida e giustifica pienamente la partecipazione al trial. Tuttavia, l’adesione del paziente alla ricerca clinica in base a quest’unica giustificazione appare configurarsi come un atto supererogatorio, inteso come un’azione che, sul piano etico, non può essere pretesa da tutti[1].
Quando invece il paziente partecipa soltanto in base alla seconda motivazione, l’azione risponde al desiderio di tutelare nel miglior modo possibile la propria salute, nell’interesse proprio e delle altre persone a cui è legato. Non si tratta, in questo caso, di un atto supererogatorio.
Sfortunatamente, questa seconda giustificazione (partecipare al trial per accedere al miglior trattamento disponibile) è irrazionale, se ci si trova in una situazione di equipoise, cioè di indifferenza fra le alternative. Infatti, non è possibile conoscere a priori se darà risultati migliori il trattamento sperimentale oppure il trattamento standard/placebo, dal momento che il raggiungimento di questa conoscenza è la ragione per cui si esegue la ricerca.
In ogni caso, per molti pazienti che scelgono di partecipare alla sperimentazione in base a questa seconda motivazione, la terapia migliore è considerata quella sperimentale e l’allocazione nel gruppo di controllo può essere frustrante.
Altri pazienti ritengono che, comunque, la partecipazione a una ricerca clinica sperimentale garantisca loro un livello di attenzione e di qualità di prestazioni da parte dei curanti superiore a quello erogato nel corso della normale pratica medica. Questo argomento, che ha un contenuto falso in ogni sistema sanitario efficiente, è stato talvolta impiegato dai ricercatori per favorire il reclutamento dei malati[2].
Nel prossimo e ultimo post sul tema, ci chiederemo se l’intelligenza artificiale potrà migliorare l’efficienza della ricerca clinica e ridurre la necessità di ricorrere ai trial randomizzati per stabilire l’utilità di nuovi presidi diagnostici o terapeutici.
[1] E. Lecaldano, Dizionario di Bioetica, Laterza, Bari 2007: p. 293.
[2] W. Glannon, Biomedical Ethics. Oxford University Press, New York 2005, pp 52-53.
Come sempre un articolo puntuale e preciso. Grazie.
Tuttavia penso si debba anche distinguere il tipo di trial. Un conto, ad esempio, è un trial di superiorità, un altro un trial di non inferiorità che, forse è un limite mio, non riesco pienamente a giustificare sul piano etico.
“Pochi pazienti acconsentirebbero a partecipare allo studio se il messaggio nel modulo che ne chiede il consenso informato fosse posto chiaramente: perché un paziente dovrebbe accettare un trattamento che nella migliore delle ipotesi non è peggiore, ma in realtà potrebbe essere meno efficace o sicuro di quelli disponibili? ”
https://www.ricercaepratica.it/archivio/354/articoli/4114/
Grazie a te Silvano, per avere richiamato l’attenzione sui trial di non inferiorità, che rappresentano, come fai notare, un problema nel problema!
L’articolo di Garattini di cui hai postato il link è chiaro e schierato, e arriva a chiedere che gli studi di non inferiorità vengano banditi.
Sarebbe molto interessante una tua messa a punto, a più di dieci anni da quella presa di posizione.