Online, sui muri delle chiese, sui manifesti pubblicitari, sulle pareti degli edifici, alle fermate degli autobus. Dappertutto, lo stesso numero: +48 222 922 597. A poche settimane dalla contestata norma sull’aborto entrata in vigore a fine gennaio (con cui si proibisce l’aborto terapeutico in caso di anomalie del feto), la Polonia continua a insorgere e a far sentire la propria voce. Di qui, la diffusione del numero di telefono: quello di “Donne in rete” (Kobiety w Sieci), ossia un gruppo di volontari che offre informazioni alle donne sulle modalità con cui poter accedere all’aborto.
Gli ostacoli a tale accessibilità, però, non riguardano solo la Polonia. Anche in Italia, infatti, regioni quali Piemonte, Abruzzo, Umbria e Marche, governate dalla destra, stanno promulgando circolari finalizzate a limitare – o peggio, contravvenire – le nuove linee di indirizzo sulla RU486 diffuse dal Ministro della Salute Roberto Speranza lo scorso agosto. Casus belli: l’annullamento dell’obbligo di ricovero in ospedale (prima previsto per un totale di tre giorni) e l’estensione a nove settimane (anziché sette) per la somministrazione del mifepristone in combinazione con il misoprostolo.
Ma perché l’aborto risulta ancora essere terreno di dissidi e scontri ideologici? Tenta di rispondere a questi e ad altri quesiti il primo Corso della Scuola Superiore di Bioetica presieduta dal professore Maurizio Mori, che nella giornata di sabato 6 marzo ha avviato la prima di tre lezioni dedicate al tema del controllo delle nascite e delle sue molteplici diramazioni, pratiche e filosofiche.
“Contraccezione: problemi sanitari ed etici”
Dopo una breve introduzione a cura dello stesso professor Mori, dedita a sottolineare l’importanza della contraccezione come espediente per il “birth control”, il ginecologo Corrado Melega ha dato l’abbrivio a un approfondito ed esauriente excursus relativo ai diversi metodi di contraccezione ora disponibili.
Che siano di barriera, ormonali o intrauterini, prima di essere somministrati, ha spiegato Melega, è opportuno che il medico segua alcuni “Good practice points”, procedendo a effettuare una scrupolosa valutazione anamnestica, a indagare sui fattori di rischio cardiovascolare e a valutare le abitudini e, soprattutto, le preferenze delle donne che li utilizzeranno. In questo senso, appaiono fondamentali, per una decisione ponderata, le categorie di rischio emesse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (rischi irrilevanti; i vantaggi superano i rischi; i rischi, provati o teorici, superano i vantaggi; il contraccettivo provoca rischi inaccettabili per la salute) e lo studio dei possibili effetti indesiderati di estrogeni e progesterone (→ per conoscere la storia degli esordi della pillola contraccettiva, si consiglia di approfondire il caso, spregevole, dei “The Puerto Rico Pill Trials”).
Meritano, invece, un discorso a parte i cosiddetti “contraccettivi di emergenza”, ancora motivo di avversione da parte del mondo cattolico sebbene sia ormai evidente che essi non agiscano su un uovo già impiantato, ma sui momenti immediatamente precedenti all’impianto stesso (impedendo la maturazione del follicolo e rendendo l’endometrio ostile).
Nonostante le campagne di informazione e le rassicurazioni del mondo scientifico, dunque, gli ostacoli alla contraccezione sono ancora numerosi. Tra questi, i costi correlati, i retaggi culturali e i falsi pregiudizi (“innaturalità” del metodo, aumento dei tumori e affini) e, soprattutto, le resistenze dei medici. I medesimi che dovrebbero ricordarsi che la salute riproduttiva è un diritto umano, e che essa, come dichiarato dall’OMS nel 2004, «[…] implica il diritto delle donne e degli uomini di essere informati e di avere accesso, sulla base di una scelta personale, a metodi sicuri, efficaci, accessibili e accettabili di regolazione della fertilità».
“Aborto: un’analisi etico-sanitaria dei pregi e limiti della 194/78”
A calamitare la maggior parte dei retaggi culturali, però, non è la contraccezione, bensì l’aborto, spesso considerato alla stregua di un’azione “cattiva” e “capricciosa”. Ne ha parlato la medica specialista in Ostetricia e Ginecologia Anna Pompili, la quale, in un intervento appassionato e coinvolgente, ha passato in rassegna le crepe più evidenti della Legge 194 del 1978 sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Il primo campanello d’allarme di un problema strutturale della legge stessa è l’utilizzo dei termini scelti dall’Articolo 1, ossia il rimando a una concezione ancora cattolica della riproduzione (definita “procreazione”) e la negazione dell’aborto come «mezzo per il controllo delle nascite». Impalcatura ideologica della 194 è, infatti, l’idea in base alla quale l’IVG serva meramente a proteggere la salute della donna, quando in pericolo, e non a garantire l’autodeterminazione e la libera scelta della gestante che ne richiede la pratica.
Fissando l’inizio della vita in utero, ne consegue il delinearsi di una dicotomia tra il “diritto alla salute” e il “diritto alla vita”, dove la salute della donna viene soggiogata ai diritti (non ancora esistenti fino alla nascita, come rivela l’Articolo 1 del Codice Civile) di una persona che è tale solo in potenza. La potenzialità, tuttavia, come ricorda il filosofo John Harris, non è un motivo valido per trattare come persona chi tale non è.
Un’istanza che, nonostante la sua logica linearità, non trova l’accordo della maggior parte dei medici, i quali considerano ancora la donna e il feto come due entità separate e non simbiotiche, al contrario di quanto ritiene, invece, Pompili. La cui disamina ha, inoltre, insistito nel portare in luce come il processo che conduce alla nascita non sia un continuum, bensì sia caratterizzato da una serie di “tappe” che ne costellano l’evolversi (dalla “viability” alla formazione delle connessioni talamo-corticali, fino al passaggio nel canale del parto e alla nascita vera e propria). Da questo punto di vista, dunque, sarebbe proprio la nascita a rivestire, secondo Pompili, il ruolo di “soglia”: un evento fondamentale in seguito al quale i cambiamenti risultano maggiormente tangibili e ha inizio il «tempo dell’essere umano».
“Diritto di aborto e forme di aborto”
Non la pensa ugualmente, invece, la filosofa Francesca Minerva, che, prendendo le mosse da una versione rivisitata dell’esperimento mentale del violinista di Judith Jarvis Thomson, ha condotto una riflessione accurata sul diritto all’autonomia della donna mediante una sequela di ipotesi concettuali, paradossi e argomenti (basati, rispettivamente, sulla “Potenzialità delle capacità del feto” e su un “Futuro come il nostro”).
In questo caso, infatti, il diritto all’autonomia continua a essere in contrasto con il diritto alla vita del feto, ma con una distinzione: a esercitare il discrimine – tra ciò che è persona e ciò che tale non è – non è la nascita, ma la «capacità di attribuire un certo valore (minimo) alla propria vita, così che la privazione di tale vita causa un danno al soggetto ed è moralmente sbagliato». Ne deriva, dunque, che solo gli individui che posseggono questa facoltà hanno diritto alla vita, e che il feto e il neonato, in quanto impossibilitati a ragionare sulla propria esistenza e a riconoscerne un valore, non siano persone (di qui, la proposta di considerare la permissibilità dell’aborto a 9 mesi o dell’infanticidio).
A corroborare la tesi esposta vi è, inoltre, un’altra evidenza: dal momento che feti e neonati non sono in grado di valutare la propria condizione, ne consegue che, se impossibilitati a venire al mondo, non possano rendersi conto del “danno” di cui i pro-life si fanno portavoce. «Se una persona potenziale non diventa mai persona – ha precisato, infatti, Minerva –, allora non c’è una persona che viene danneggiata dall’aborto o dall’infanticidio, quindi non c’è nessun danno», per il semplice motivo che tale “potenzialità in nuce” non sarà mai consapevole del “diritto” che ha perso. Unitamente alla facoltà (già formata) di autodeterminarsi e di decidere sul proprio corpo, quindi, le premesse esposte rivelano, ancora una volta, come l’interruzione volontaria di gravidanza non rechi con sé i parametri dell’immoralità.
“Aborto e morale”
A impreziosire la seconda giornata di lavoro, vi è stata, infine, la minuziosa esposizione della filosofa (e moderatrice) Maria Teresa Busca, il cui intervento si è focalizzato sul volume “Aborto e morale” redatto dal professor Mori ed edito da Einaudi nel 2008. Ripercorrendo le tappe precipue della storia della pratica e i maggiori ostacoli incontrati sul suo cammino, la riflessione è culminata nella considerazione dello stato attuale della lotta per la sua totale accessibilità e dei problemi concettuali tuttora motivo di discussione. Sintomo che la guerra culturale sul tema è ancora in divenire e che i diritti da acquisire sono, purtroppo, ancora numerosi.
Sono ovviamente d’accordo con la differenziazione tra “potenziale persona” e “persona portatrice di diritti”. Ma attenzione a dire che il discrimine tra ciò che è vita e ciò che non lo è, è la «capacità di attribuire un certo valore (minimo) alla propria vita» e che solo chi possiede tale facoltà ha diritto alla vita. Alla luce di questa convinzione dovremmo escludere neonati, bambini che non hanno ancora sviluppato coscienza di sé, persone affette da patologie mentali o con istinti suicidi…strada un po’ pericolosa. Trovo che sia molto più semplice dire che i diritti della persona vengono acquistati alla nascita, dunque l’aborto non nega alcun diritto, anzi afferma il diritto all’autodeterminazione del/della gestante.