Il nazionalismo vaccinale e i suoi difetti

– di Demetrio Neri

Vorrei aggiungere qualche considerazione all’intervento di Massimo Sartori sul “nazionalismo vaccinale” e cioè la tendenza di ogni nazione a sentirsi obbligata, in primo luogo, a rendere il vaccino disponibile per i propri cittadini (e, augurabilmente, per chi cittadino non è, ma si trova nei confini della nazione).

E’ una tendenza comprensibile ma, dice giustamente Sartori, miope nel lungo periodo. Basta consultare un vocabolario per sapere che la pandemia è il diffondersi di una malattia a livello globale e che, dunque, va contrastata a livello mondiale. Nessuno è in grado di prevedere cosa accadrà, ma le esperienze passate ci dicono che il virus potrebbe diventare endemico e quindi dovremo abituarci a conviverci per lungo tempo, sapendo che, di tanto in tanto, potrebbe assumere forma epidemica ed eventualmente ridiventare poi pandemico.

Se vogliamo sperare di evitare queste conseguenze ( e non è detto che ce la facciamo) o almeno di minimizzarle (e questo è più realistico), dobbiamo fin da ora battere il nazionalismo vaccinale: dalla pandemia si esce tutti insieme o non se ne esce. Che cosa si oppone a questa prospettiva? In primo luogo, esattamente quel che dice Sartori: la miopia, la miopia politica, il non saper guardare al di là delle prossime elezioni. Il nazionalismo vaccinale è, a lungo termine, un’enorme sciocchezza, che però coglie un sentimento diffuso (non so quanto, ma c’è) tra la gente e, invece di elaborarlo, si limita a cavalcarlo per guadagnare voti alle prossime elezioni. Qui è un po’ come con la prevenzione: tutti sappiamo che prevenire è meglio che curare, in termini di risparmio sia di sofferenze, sia di risorse finanziarie. Ma quando qualcuno propone di investire di più nella prevenzione per evitare di spendere di più per curare, trova sempre un assessore regionale alla sanità (mi è capitato) che obietta :”Già, ma se gli effetti si vedranno tra 10 anni, io intanto che dico ai miei elettori?”

La questione cambia di dimensioni, ma non di sostanza, se la guardiamo a livello europeo. Una risposta alla pandemia strutturata a livello europeo (come quella che, almeno in parte, si è realizzata) è certo meno miope di quella strutturata a livello dei singoli Stati, ma se non riesce ad andare oltre l’emergenza ( i prossimi mesi o, al massimo, due o tre anni) rischia di diventare insufficiente: almeno, se non vogliamo immaginare un futuro in cui il mondo sia strutturato si basi regionali (Europa, America del Nord, Asia ecc. ) o, peggio ancora, di nuovo nazionali, ma in ogni caso con confini non porosi: io non riesco a immaginare come questo possa avvenire, ma se i confini sono porosi il virus passa.

E’ dunque – prima ancora di ogni valutazione etica che faccia appello alla solidarietà – nell’interesse delle zone ricche del mondo progettare ed attuare fin da subito una via d’uscita a lungo termine efficace e giusta. So bene che ci sono molti ostacoli alla realizzazione di un progetto di questo genere, ma su un punto vorrei brevemente dire qualcosa: la questione dei brevetti.

C’è un coro pressoché unanime che chiede alle case farmaceutiche di rinunciare ai diritti di proprietà intellettuale sui vaccini ed è sperabile che le case farmaceutiche accettino di farlo (se non altro, per una questione di immagine pubblica, come avvenne nel caso degli antivirali per contrastare l’HIV). Ma affinché questo si traduca in un reale beneficio a lungo termine, occorre che sia accompagnato da subito da almeno altri due interventi.

In primo luogo, una riforma complessiva dei sistemi di protezione della proprietà intellettuale, da molti e da tempo auspicata, ma – a quanto ne so – ancora ferma al palo.

In secondo luogo, è necessaria una netta e sostanziale inversione di tendenza nel rapporto tra investimenti pubblici e privati nel campo della ricerca biomedica. Non conosco i dati più recenti, ma credo di non essere troppo lontano dal vero se dico che almeno 80% degli investimenti nella ricerca biomedica proviene da fonti private. A mio parere, è assolutamente necessario cominciare ad invertire questo dato e per farlo occorre pensare subito a forme di compartecipazione tra pubblico e privato che serva anche a superare la reciproca diffidenza tra questi settori: il primo accusato dal secondo di inefficienza e burocratismo, il secondo accusato dal primo di mirare solo al profitto e di orientare la ricerca al mercato. Se la pandemia ci costringerà a superare questi vecchi schemi, sarà un gran guadagno per tutti.

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