La sintesi dello scritto di Paolo Merlo dà conto di una analisi sistematica e molto minuziosa dei vari possibili modi di generazione e di presentazione dell’errore. Propone poi una modalità di analisi e di valutazione dell’errore che consenta di pervenire ad un miglioramento sia del singolo operatore che del sistema. La soluzione proposta si sviluppa nell’ambito dell’etica della prima persona, ritenendola preferibile a quella dell’etica della terza persona.
Questa scelta, a mio parere, è meritevole di una approfondita discussione sia in rapporto alla sua reale efficacia nel migliorare la performance sia in rapporto alla tutela del paziente, tutela che potrebbe essere ridotta dalla pratica della autovalutazione della eticità dei comportamenti.
A mio avviso tuttavia esiste un tema più “a monte” su cui aprire il dibattito ed è la nozione stessa di errore. Semplificando al massimo (ma, credo, non tradendo il nocciolo del ragionamento svolto) l’errore viene definito in relazione al “bene del paziente” ed al “progresso della medicina” entrambi valori implicitamente definiti a priori ed in maniera oggettiva. Lo strumento per evitare l’errore è il rispetto delle linee guida (errore cognitivo) e delle procedure (errore operativo). La definizione iniziale del paziente come soggetto non credo possa confutare questa interpretazione poiché mi pare rimanga sospesa nel vuoto: non abbia cioè influenza né sull’analisi condotta né, soprattutto, sulle conclusioni che sono tutte interne all’operatore.
In realtà se il paziente è soggetto deve avere la possibilità di decidere quale sia il proprio bene e quindi di definire o di richiedere al sanitario di collaborare alla definizione di percorsi idonei a mantenerlo o conseguirlo, anche in violazione delle linee guida. Ad esempio un paziente neoplastico potrebbe voler essere trattato con un protocollo che offre minori probabilità di sopravvivenza ma migliore qualità di vita. L’errore potrebbe quindi paradossalmente consistere, in questo caso, nel rispetto delle linee guida. Va inoltre da sé che nessuno può essere forzosamente ridotto a substrato su cui far progredire la medicina.
Il ruolo di protagonismo e di autodeterminazione del paziente trova ovviamente dei limiti legali. Ma prima ancora di confliggere con questi limiti credo sia necessario evidenziare che la mancanza di una definizione oggettiva del bene del paziente toglie al medico ed al paziente stesso un punto di riferimento comune cui ancorare rispettivamente prassi professionali ed aspettative. La relazione di cura che diviene alleanza terapeutica deve necessariamente confrontarsi con il possibile disallineamento tra i valori etici del paziente e quelli dell’operatore sanitario. Quest’ultimo è gravato da un “obbligo a contrarre” o può rifiutare la sua prestazione? In questo caso qual’è il livello di dissonanza che giustifica la mancata stipula dell’alleanza? Si tratta di temi su cui il dibattito etico è estremamente corposo ed esula dal presente contesto. Mi è parso opportuno richiamare il problema perché, a mio parere, è possibile ipotizzare che il tema dell’errore possa essere affrontato con lo strumento dell’etica della prima persona laddove la prima persona sia il paziente. A ben riflettere il paziente, in quanto vittima in prima persona si troverebbe naturalmente nella condizione di approcciare l’errore in questo modo.
Il medico viceversa opera spesso in organizzazioni sanitarie e se riconosce come obiettivo etico quello di minimizzare probabilità ed entità degli errori, non può limitarsi ad utilizzare l’etica della prima persona ma deve necessariamente confrontarsi con una valutazione in terza persona. Credo infatti che l’attenzione etica non si possa limitare alla riflessione sull’errore commesso ma debba concentrarsi sulla prevenzione attiva. Mi pare anzi corretto classificare l’errore in sé come un fatto eticamente neutro. Ciò che richiede il giudizio etico sono le iniziative intraprese per la sua prevenzione: sono tecnicamente adeguate al contesto in cui si opera? sono realmente applicate con i necessari impegno e costanza? sono effettuate regolarmente verifiche di efficacia e di adeguamento al mutare della prassi? In sintesi credo che il tema etico fondamentale sia quello di collaborare attivamente a programmi di prevenzione dell’errore, prevenzione da perseguire con l’adozione di strumenti tecnici ben sperimentati ma che sono potenzialmente vanificabili da atteggiamenti elusivi dei soggetti interessati. Per chiarezza temo che l’autogestione della valutazione etica dell’errore possa costituire, appunto, uno strumento elusivo. Potrebbe, per converso, generare immotivati sensi di colpa in soggetti a ciò psicologicamente predisposti. Oggetto di analisi divengono quindi necessariamente non solo gli errori che non causano danni al paziente (che la definizione di errore adottata non considererebbe tali), ma anche i “quasi errori” ossia quelle situazioni che potrebbero evolvere in errore se non fossero prontamente individuate e corrette. Mi pare evidente che questa attività non possa che essere svolta in terza persona. Essa richiede inoltre, a mio avviso, una integrazione delle categorie di errore individuate nel testo per includere quelle che sono tipiche delle organizzazioni multiporfessionali/multidisciplianari e che, detto in maniera estremamente sintetica, sono relative alla corretta definizione dei confini operativi delle varie figure professionali e della comunicazione nell’ambito dell’équipe.
Sul tema della violazione: in prima istanza la violazione, in quanto volontaria deviazione da un percorso /superamento di un limite prefissato, esula dal campo dell’errore e si posiziona in quello del dolo.
Non ritengo però che il tema possa essere definito in maniera tanto schematica, anche perché in ambito sanitario la violazione può riguardare sistemi normativi di diverso livello. Lo scritto cui mi sto riferendo associa errore e violazione come possibili cause di danno al paziente. Mi pare invece, come accennato più sopra, che la violazione di una linea guida, se concordata tra medico e paziente al fine di raggiungere un risultato positivo condiviso, debba posizionarsi fuori sia del campo dell’errore sia da quello del dolo.
In un ambito diverso. Se viene riconosciuta l’autodeterminazione del paziente e se quindi il rapporto di cura si instaura come contratto con cui il curante accetta di condividere l’obiettivo proposto dal paziente, può sorgere la necessità di violare la norma deontologica da parte del curante al fine di adempiere il contratto nel migliore dei modi. In questo specifico contesto, a mio avviso, risulta utile ed inevitabile il ricorso all’etica della prima persona.