– di Massimo Sartori –
Immuni è un’applicazione che è stata creata e resa disponibile in Italia dal giugno 2020, per aiutare a combattere l’epidemia di Covid-19. E’ considerata dagli esperti un software per smartphone molto buono, forse il migliore mai rilasciato dalla Pubblica Amministrazione[i]. Nonostante questo, i numeri che la riguardano sono impietosi e ne hanno decretato – per ora – il fallimento.
L’app, alla fine di maggio 2021, è stata scaricata da circa 10 milioni di Italiani (20% della popolazione maggiore di 14 anni), ed è probabile che in molti casi essa non sia abitualmente attivata, ad esempio perché il Bluetooth del telefono è spento. Solo lo 0.5% degli infettati ha segnalato la propria positività con questo mezzo e, di conseguenza, ben poche persone hanno ricevuto la notifica di un contatto a rischio.
Chi ha ucciso l’App Immuni?
Secondo Carlo Canepa, autore dell’inchiesta citata in nota, la disfatta dell’App Immuni ha molti responsabili. A cominciare dai politici e da chi ha gestito la comunicazione.
Come prima cosa, il software è stato presentato come “la soluzione” del problema di interrompere i contagi virali, a patto che esso venisse scaricato e usato almeno dal 60% della popolazione. In realtà Immuni non poteva rappresentare (e non può essere) l’unica soluzione, ma soltanto un tassello nell’ambito di un sistema di tracciamento dei contatti articolato e ben funzionante. L’idea, poi, che l’app potesse essere efficace solo se utilizzata da un numero enorme di persone, ha ben presto disincentivato la sua acquisizione e il suo utilizzo, appena ci si è resi conto che il target fissato non sarebbe stato raggiungibile.
A questo errore di posizionamento si è aggiunta la polemica politica. Numerosi esponenti di spicco hanno remato contro Immuni, invitando a non scaricarla e arrivando a dire che “i dati sulle condizioni sanitarie e gli spostamenti delle persone sono il business più appetibile del mondo per le case farmaceutiche”. Benché questa e consimili affermazioni, se riferite all’App Immuni, denuncino una profonda ignoranza del suo funzionamento, esse hanno sicuramente inciso sulla pubblica opinione e molti cittadini, a fronte di questa incertezza e conflittualità, hanno reagito con diffidenza.
Il colpo di grazia sembra però essere venuto dal disinteresse (o dal boicottaggio) di alcune Regioni. Diverse inchieste giornalistiche hanno infatti rilevato che gli operatori sanitari non erano pronti a gestire le richieste di chi voleva segnalare la propria positività tramite Immuni. Al di là dello stucchevole rimbalzo di responsabilità fra governo centrale e Regioni, sembra si sia trattato di un’ulteriore situazione in cui a una insufficiente organizzazione nazionale si sono sommate, con effetti deleteri, le spinte verso l’autonomia sanitaria delle varie Regioni.
A che cosa serve davvero Immuni?
L’app Immuni, per come è strutturata, e anche ammesso che tutti la utilizzino, può mettere in guardia solo una parte dei potenziali contagiati. Questo perché segnala esclusivamente i contatti prolungati (attualmente 15 minuti) a coloro che si siano trovati entro due metri di distanza da un soggetto infettato, che abbia deciso di condividere l’informazione della sua infezione. Non può quindi segnalarci se abbiamo avuto un contatto fisico (bacio, strette di mano, eccetera) con un soggetto infetto che è durato meno di 15 minuti, né se ci siamo esposti, in luoghi chiusi, ad un aerosol ad alta carica virale senza stretta vicinanza alla persona portatrice del virus. Per questi semplici motivi, il pensare che Immuni sia “la soluzione” del problema del tracciamento dei contatti è ingenuo e sbagliato. Invece, l’applicazione può essere utile se integrata in un sistema più ampio.
In realtà e con questi limiti, Immuni può prevenire nuove infezioni (e nuove morti) anche se utilizzata da molte meno persone di quante siano state inopportunamente indicate. Naturalmente, quante più sono le persone che la utilizzano, maggiore è il suo impatto positivo sul controllo dell’epidemia. A patto che a chi riceve la notifica di avvenuto contatto sia detto con chiarezza che cosa deve fare.
Perché la si dovrebbe usare?
Questo è un nodo cruciale. Perché una persona che si è infettata con il virus dovrebbe usare Immuni per prevenire l’infezione di altre persone con cui è stata in contatto? L’app non prevede nessun incentivo immediato, né la possibilità di vincere una lotteria. Il soggetto dovrebbe agire semplicemente sulla base del principio di beneficienza, che prevede che se è possibile fare il bene di altre persone (o evitare il loro male), e se questo non comporta per se stesso un carico troppo pesante, è moralmente giusto farlo.
In particolare in Italia, seguire il principio di beneficienza non dovrebbe essere difficile per tutti coloro che aderiscono a una religione che si basa sulla regola aurea “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”.
D’altra parte, questa regola sapienziale sembra esprimere un’intuizione accessibile ad ogni conoscenza e coscienza umana, indipendentemente dall’adesione a un credo religioso. Da un punto di vista laico, ad esempio, può trovare una giustificazione nell’esistenza delle interazioni sociali e della reciprocità (David Hume), oppure fare semplicemente riferimento all’origine biologica ed evoluzionistica di alcuni tratti morali dell’essere umano.
In ogni caso, una comunicazione corretta che stimoli le persone ad usare l’app Immuni potrebbe chiarire, nei modi dovuti, che il suo corretto impiego rappresenta un atto benevolente nei confronti del prossimo, senza le caratteristiche di un atto supererogatorio.
La possibile rinascita.
Immuni ha un futuro? Ci sono due elementi che potrebbero rimettere in gioco questa applicazione.
Il primo è che, in questa fase dell’epidemia in cui si assiste ad una netta riduzione dei nuovi casi, è teoricamente possibile fare ripartire – con energia e forti degli errori commessi in precedenza – il tracciamento dei contatti. Inserire l’app fra gli strumenti del contact tracing, con maggiore chiarezza di intenti e di indicazioni per i fruitori, potrebbe migliorare la sua efficacia.
Il secondo elemento riguarda la recente pronuncia del Garante per la Privacy che ha indicato nell’App Immuni l’unico strumento informatico “al portatore” idoneo per caricare il Green Pass e le informazioni in esso contenute. Se questa strada verrà percorsa, dovrebbe far sì che molte altre persone carichino l’applicazione sui propri smartphone.
A questo punto, la scelta di farne uno strumento utile per tutti ritornerà ai decisori politici e ai loro comunicatori.
[i] https://www.italian.tech/2021/06/07/news/chi_ha_ucciso_immuni_e_perche_-304210182/
L’App Immuni è vittima anche di un processo comunicativo distorto.
A me sembra che, in questo periodo, stiamo assistendo ad un pericoloso sensazionalismo comunicativo a cui, purtroppo, non è estraneo il mondo scientifico.
Ogni giorno gli “esperti” vengono interpellati dai giornali, partecipano alle trasmissioni televisive, si scontrano in varia misura sui temi della lotta al covid-19. Spesso ingenerando polemiche interne per nulla edificanti.
Il processo comunicativo è complesso e forse tutti i comunicatori dovrebbero fare autocritica. Un esperto non deve solamente “dire cose giuste”, lo deve fare in modo corretto e, soprattutto, la sua comunicazione non può prescindere dall’interlocutore e dagli effetti, spesso nefasti, che su di esso può avere.
Tutti sappiamo che i vaccini, come tutti i farmaci, possono avere effetti collaterali anche gravi, quindi un esperto che alla domanda del giornalista, nell’ambito di un talk show televisivo, risponda: “Sì è vero i vaccini possono avere effetti collaterali anche gravi” fa una affermazione esatta, ma, tenuto conto dell’uditorio, fa una affermazione quanto meno azzardata i cui effetti possono essere nefasti per la comunità.
Forse tutti dobbiamo riflettere sull’etica della comunicazione e tener presente l’adagio dei nostri vecchi: “Un bel tacer non fu mai scritto”.
Silvano Andorno solleva il grande problema di come fare comunicazione scientifica nei confronti di chi non è scienziato. Mi sono ricordato di due frasi di Einstein sull’argomento e sono andato a recuperarle. Esse indicano bene, rispettivamente, chi può essere in grado di comunicare e come si deve comunicare: “You can’t explain it simply, if you don’t understand it well enough”; “Everything should be made as simple as possible, but not simpler”.
Sono d’accordo con Silvano che se non si possono rispettare queste due condizioni, è meglio non parlare. Ma penso che nella maggior parte delle situazioni sia bene che chi è in grado di fare una buona comunicazione scientifica cerchi di dare a tutti la possibilità di capire, mettendo in grado anche coloro che non si occupano di quella data scienza di dare giudizi sulle implicazioni di valore che hanno i dati scientifici. Massimo Sartori