Gli human challenge studies rappresentano dei modelli di infezione umana controllata, in cui i ricercatori somministrano intenzionalmente un agente infettivo a volontari, per chiarire la patogenesi e l’immunità di determinate malattie. Queste ricerche possono fornire, quando siano ben disegnate e ben condotte, informazioni di inestimabile valore per la comunità (ad esempio, hanno contribuito alla realizzazione del vaccino contro la febbre gialla, malattia trasmessa dalla puntura di zanzare prevalentemente nell’Africa sub-Sahariana, dove causa circa trentamila morti ogni anno). Il problema etico di questi e di studi consimili è quello che, per ottenere risultati utili a tutti, si mette a rischio la salute dei volontari che partecipano alla ricerca. Non è detto che, se il fine da raggiungere è buono, i mezzi che si usano per raggiungerlo siano sempre leciti.
L’infezione deliberata di giovani sani
Nel Regno Unito è in corso una sperimentazione clinica in cui i partecipanti, giovani, sani e correttamente informati, sono deliberatamente esposti a SARS-CoV-2 per valutare quale sia la quantità di inoculo virale necessaria per produrre un’infezione e per testare l’efficacia di un vaccino[i]. Ciascun partecipante riceverà in cambio circa $ 6200.
Questo studio sta provocando un ampio dibattito, che riguarda sia l’utilità scientifica dei risultati attesi, sia le criticità etiche che esso solleva, pure in presenza di un esplicito consenso informato alla partecipazione da parte dei volontari.
Da un punto di vista conoscitivo, i critici di questa sperimentazione sottolineano come le evidenze che ne scaturiranno saranno scarsamente generalizzabili, perché ottenute in un gruppo di soggetti (dai 18 ai 30 anni e senza alcuna patologia) poco rappresentativi della popolazione che dall’infezione da SARS-Cov-2 attende le conseguenze più gravi.
Sotto l’aspetto etico, viene messo in luce che, benché sia vero che il rischio di morte per un giovane sano che viene infettato sia statisticamente molto basso, è altrettanto vero che non esiste una terapia ‘di salvataggio’ di provata efficacia per contrastare con certezza un’eventuale evoluzione sfavorevole. Inoltre, non vi sono dati sufficienti per escludere la possibilità del long Covid, cioè dell’insieme dei disturbi e delle manifestazioni cliniche che, in alcuni soggetti, persistono anche dopo la guarigione dall’infezione[ii].
La retribuzione per la partecipazione agli human challenge studies
Un argomento spesso dibattuto dagli eticisti riguarda il quesito se la partecipazione dei volontari a questo tipo di studi debba essere retribuito e, se sì, in che misura. In genere, si ritiene che il consenso alla partecipazione debba conseguire a un genuino desiderio dei volontari di contribuire all’avanzamento delle conoscenze scientifiche, a beneficio di tutti, e che l’eventuale retribuzione debba configurarsi come una sorta di rimborso spese per i disagi e il tempo dedicato. Tuttavia, è sostanzialmente ammesso che “nessuno parteciperebbe se non fosse pagato”.
L’entità del rimborso offerto ai partecipanti dello studio britannico ($ 6200) è considerato dai critici di questa sperimentazione “abbastanza elevato da sollevare preoccupazioni per lo sfruttamento e la manipolazione (exploitation and manipulation)” dei volontari. Vi è cioè da parte di questi eticisti il timore che con un compenso di questa entità partecipino alla sperimentazione soprattutto gli individui che si trovano in difficoltà economiche o che vivono altre condizioni di emarginazione e che quindi il loro consenso informato sia determinato prevalentemente dal bisogno.
La sperimentazione clinica, tuttavia, non è l’unica condizione in cui gli esseri umani mettono a disposizione il proprio corpo e la propria integrità fisica in cambio di un compenso. Ad esempio, i calciatori che militano in campionati di eccellenza mettono continuamente a repentaglio i propri muscoli, i propri tendini e le proprie articolazioni, spesso praticando l’attività sportiva al limite delle proprie possibilità fisiche, andando anche incontro ad esiti parzialmente invalidanti. A nessuno, tuttavia, viene in mente che si tratti di individui sfruttati e manipolati.
Retribuire i partecipanti agli human challenge studies, dopo che essi sono stati correttamente selezionati in base alle necessità della ricerca e hanno accordato il proprio consenso informato, nella misura in cui è retribuito un calciatore medio di serie A (circa 500.000 euro all’anno[iii]), eviterebbe probabilmente due ordini di problemi. In primo luogo non dovrebbe esistere più il rischio di sfruttamento e di manipolazione dei volontari, che, quando anche fossero molto poveri o provenissero da aree di emarginazione potrebbero avvalersi, come molti calciatori, dei benefici dell’ascensore sociale. In secondo luogo, si limiterebbe il ricorso agli human challenge studies ai soli casi in cui il prevedibile beneficio per tutti fosse di entità tale da giustificare il relativo impegno economico da parte della società.
[i] https://clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT04740320
[ii] Per una introduzione al dibattito fra i favorevoli e i contrari agli human challenge studies in relazione alla pandemia di Covid-19 si vedano il recentissimo articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine da studiosi britannici https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp2106970 e il precedente lavoro di Daniel P. Sulmasy, del Kennedy Institute of Ethics, pubblicato su JAMA https://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/fullarticle/2780744
Premesso che per me è sempre stato difficile decidere se tre pere valgono più o meno di quattro mele, credo che sia eroico cercare di risolvere un problema ad incognite multiple, quando le incognite facciano parte di sistemi diversi.
Nel caso degli Human Challenge Studies, le variabili in gioco possono assume valori differenti sia per la soggettività della loro valorizzazione che per l’imponderabilità ‘a priori’ della loro effettiva importanza.
Tra le prime:
– Data la mia situazione economica, quanto rappresenta per me la somma X a cui ho diritto partecipando allo studio?
E’ comune che il compenso sia uguale per ogni partecipante, quindi inevitabile la selezione delle classi sociali o delle situazioni di vita più disagiate; per mille dollari probabilmente esiste qualcuno che accetterebbe di donare un rene, ma per la stessa cifra probabilmente un qualsiasi ‘zio Paperone’ contemporaneo non accetterebbe di sperimentare uno shampoo antiforfora.
Quanto è etico questo ‘sacrificio’ richiesto ai più deboli? Quanto possiamo definirlo un aiuto, offerto agli stessi?
-Per me scienziato, per me cavia, per me componente del comitato etico, qual è il significato che do alla monetizzazione del corpo umano, indipendentemente dal rischio per l’integrità fisica?
Per taluni, in relazione a considerazioni religiose oppure di sola etica personale, potrebbe rappresentare una infrazione ad una regola od una lesione della dignità individuale, mentre per altri, più inclini al pragmatismo, la condizione sarebbe assimilabile a quella di un lavoro usurante (nella cui categoria non comprenderei calciatori, tennisti, golfisti ed affini; forse piloti di sport motoristici, che più facilmente rischiano di riportare conseguenze irreversibili; ma più normalmente, di minatori, operai di industria chimica, tecnici esposti a radiazioni, il cui rischio sanitario viene monetizzato con un indennizzo)
Tra le seconde:
– qual è il rischio atteso di morbilità?
Non esattamente prevedibile credo, visto che lo stiamo testando
– quale in particolare il mio rischio?
potrebbe essere diverso rispetto all’atteso per una alterazione latente del mio stato di salute, per ora non nota
– quale la mia possibilità di rescue in caso di danno?
Quale sarà l’effettivo vantaggio alla scienza apportato dalle conclusioni dello studio?
La rilevanza dell’apporto scientifico dipenderà dall’analisi dei risultati, che per definizione non sono noti a priori
-quanto sarà equa la distribuzione sociale degli eventuali vantaggi conseguenti allo studio?
Molti studi sono promossi e finanziati da enti privati; la ricaduta sociale dei vantaggi conseguiti in seguito ai risultati potrebbe essere ripartita in maniera non omogenea.
Penso che queste, e probabilmente altre in aggiunta, siano le componenti , per lo più incognite o comunque di peso non facilmente oggettivabile, del bilancio a favore o contro la sperimentazione sui volontari umani.
Senza dubbio una motivazione importante, quale quella costituita dalla spinta alla ricerca di soluzioni rapide per la attuale situazione pandemica, potrebbe indurre a ‘passar sopra’ ad alcuni ostacoli di carattere etico e legislativo.
Questo sarebbe verosimilmente giustificato se la sperimentazione avesse solo un fine di carattere sociale ed universale ( e la retribuzione dei volontari ne rappresentasse il mezzo) , piuttosto che costituire un investimento mirato ad un guadagno soprattutto di carattere finanziario e ristretto ad una elite.