Accanimento e futilità in medicina (2/5). L’accanimento terapeutico

– di Massimo Sartori –

E’ solo dalla metà del secolo scorso che i medici riescono a prolungare in modo significativo la durata della vita delle persone che hanno malattie inguaribili e terminali. Talvolta, ciò avviene a scapito della qualità della vita residua.

Accanimento terapeutico è quindi un’espressione coniata in tempi relativamente recenti. Essa traduce in italiano il neologismo francese acharnement thérapeutique, che è ancora più potente. Acharnement fa infatti riferimento all’azione di un animale che si attacca ostinatamente alla carne che divora.

In spagnolo, il termine encarnizamento terapeutico riproduce letteralmente quello francese. L’espressione non ha avuto invece una diffusione significativa nel mondo anglosassone.

L’origine e il significato dell’espressione.

Questo modo di designare il comportamento dei medici compare per la prima volta nel titolo di un libro sul fine vita, scritto nel 1984 dal gesuita e filosofo morale Patrick Verspieren[1].

Tuttavia, il significato ad esso sotteso aveva già preso forma in Francia alla fine degli anni 70 del secolo scorso in una fase di forte tensione dialettica fra chi auspicava una medicina socializzata chiedendo ai sanitari di aderire a una convenzione nazionale con la Securité Sociale e la maggioranza del corpo medico che si barricava dietro la concezione della medicina come disciplina liberale, alla quale non potevano essere imposti vincoli[2].

Accanirsi, in italiano, significa imbestialirsi come un cane e, in senso figurato, la parola rappresenta un atteggiamento di ostinazione in qualche cosa o contro qualcuno, con impegno rabbioso[3]. A partire da questa origine d’uso e da questa etimologia, sembra evidente che la parola avesse in origine un significato polemico e che la percezione di che cosa fosse accanimento terapeutico riguardasse originariamente il paziente (o la famiglia, o i caregiver, o l’opinione pubblica) più che il medico e/o la struttura sanitaria.

Ritorniamo ai casi Marasco ed Herrera, esaminati nel precedente post. E’ verosimile che, nel primo caso, i genitori di Davide abbiano vissuto la terapia riservata al figlio come accanimento terapeutico, anche in quanto è stata praticata contro la loro volontà. Invece, la mamma e il papà di Abigail non l’hanno considerata come tale, perché essa è stata da loro scelta.

L’espressione cambia pelle.

Di fronte al diffuso impiego del termine accanimento terapeutico, in sé provocatorio e riferentesi a esperienze di carattere soggettivo, alcune istituzioni italiane hanno tentato di conferirgli una dimensione più imparziale e condivisa. Ad esempio, La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM), nel codice di deontologia medica del 1989, l’aveva definito come l’irragionevole ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita. Negli anni Novanta, Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB)  l’aveva riferito a un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica[4].

In questo modo, sia la FNOM che il CNB hanno ridefinito un’espressione, che originariamente rivendicava il diritto del paziente a stabilire dei limiti all’invasività delle cure, caricandola di considerazioni ‘oggettive’ di pertinenza medica.

Mai più accanimento.

Oggi, nel linguaggio dei documenti ufficiali italiani e francesi, non si parla più di accanimento terapeutico (con l’interessante eccezione contenuta nella motivazione della sentenza dei giudici di Bari sul caso Marasco), ma di ostinazione irragionevole. Tuttavia, anche quest’ultima espressione cerca – smussando gli angoli – di subordinare la censura verso il medico che ‘si ostina troppo’ al riconoscimento di ‘ragioni’ non necessariamente condivise dal paziente.

Da qualche anno, qualcosa è cambiato. Ad esempio, in Italia, la legge 219/2017 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) ha posto le basi perché nessuno debba più subire un trattamento nei propri confronti, percependolo come accanimento, o come ostinazione. Infatti, nessun trattamento può essere messo in atto senza l’autorizzazione del paziente competente. Inoltre, le DAT permettono “ora per allora”, cioè per quando ciascuno di noi non dovesse essere competente, di rifiutare adesso quegli interventi sanitari che ritiene incompatibili con il proprio sistema di valori. Tuttavia, perché questo processo che la legge ha avviato diventi compiuto, è necessario che la 219/2017 trovi ampia applicazione. La conoscenza di queste opportunità dovrebbe essere promossa con più determinazione, in modo che un numero sempre più grande di persone possa avvalersi dei benefici della legge.

Nel prossimo post sull’argomento riassumerò il concetto di futilità medica (medical futility), che ha alimentato il dibattito sull’eccesso di trattamento medico soprattutto negli Stati Uniti. Esso, pur diverso, può talvolta apparire nei confronti dell’accanimento come l’altra faccia di una stessa medaglia.


[1] P. Verspieren. Face à celui qui meurt. Euthanasie. Acharnement thérapeutique. Accompagnement. Ed. Desclée De Brouwer. 1984.

[2] S. Spinsanti. Accanimento terapeutico. in Il corpo e la mente, XXI secolo (volume V). Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2010. Pp.555-562.

[3] Il Vocabolario Treccani, II Edizione. Istituto dell’Enciclopedia Treccani. Milano, Trento 1997. Volume primo, p. 21.

[4] https://bioetica.governo.it/media/1909/p18_1995_fine-vita_it.pdf

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