“SARS-CoV-2: Questioni bioetiche”. Alcune riflessioni a margine del contributo della Professoressa Palma Sgreccia

– di Luca Lo Sapio –

Il contributo della professoressa Palma Sgreccia (cfr. https://atomic-temporary-186479284.wpcomstaging.com/2021/10/31/sars-cov-2-questioni-bioetiche-luca-lo-sapio/)  mi dà la possibilità di mettere a fuoco alcuni passaggi-chiave della mia riflessione intorno all’etica della pandemia e all’etica dell’estinzione di sapiens. In particolare, la professoressa Sgreccia evidenzia che “dobbiamo autodisciplinarci, ma per farlo occorre mettere a tema il soggetto e la sua dimensione interiore, che sembra sfuggire al bio-realismo dell’Autore. Senza l’educazione di questa dimensione la persona può essere fagocitata da politiche a rischio autoritario. Nel ricco, complesso e articolato quadro dell’etica dell’estinzionefornito dall’Autore sembra mancare l’etica in prima persona, su cui radicare la responsabilità individuale, importante per la convivenza democratica”.

Procederò quindi, nei prossimi due paragrafi, a rendere più chiari alcuni snodi della mia riflessione.

§ La psicologia morale di sapiens e l’etica di senso comune

I rapidi cambiamenti che hanno attraversato – almeno a partire dalla Prima Rivoluzione Industriale- e attraversano il nostro pianeta hanno determinato un mismatch evolutivo. Da un lato, la nostra psicologia morale, un set pre-impostato di risposte, stabilizzatesi nel corso della storia evolutiva di sapiens, che consentono ai membri della nostra specie di formulare decisioni di fronte a un certo numero di scenari, dall’altro un mondo sempre più iperconnesso e ipertecnologico che ha radicalmente modificato i tempi e gli spazi delle nostre esistenze, oltre che il nostro potere d’azione sulla biosfera. La nostra psicologia morale, adattatasi a fronteggiare scenari locali, in cui sono coinvolti pochi individui e in cui le nostre azioni hanno un effetto limitato e, per lo più, reversibile sulla biosfera non è in grado di accompagnare in maniera appropriata i processi decisionali sollecitati da macro-problemi come il surriscaldamento globale, il crescente numero di spillover e eventi pandemici, l’esaurimento delle risorse naturali, etc. La nostra psicologia morale ci impedisce di attivarci (nei termini dell’empatia) di fronte a ciò che ci appare lontano nel tempo (le generazioni future), nello spazio (i cittadini di paesi, come il Bangladesh, che sono già colpiti dalle conseguenze del Global Warming) o dal punto di vista affettivo (gli animali non umani, l’ambiente, etc.); ci spinge ad assumere atteggiamenti di inter-esse per le azioni di cui siamo direttamente responsabili e non per le eventuali omissioni; ci spinge a preferire un guadagno immediato e a rifuggire una eventuale perdita nel breve periodo, piuttosto che perseguire un guadagno futuro enorme, ma dai contorni incerti, e accettare la possibilità di una perdita immediata, certa, benché di entità più o meno trascurabile. Tale psicologia morale è alla base della nostra etica di senso comune, un insieme di principi e regole con le quali accompagniamo il nostro agire nella vita quotidiana e che, tuttora, nelle nostre società post-secolari e pluralistiche costituisce il substratum della moralità.

Dunque, in sintesi, la nostra psicologia morale e l’etica di senso comune sono strumenti inadeguati a fronteggiare gli scenari, sempre più complessi, offerti dal mondo contemporaneo.

La pandemia di SARS-CoV-2 è un esempio di come la nostra psicologia morale e l’etica di senso comune possano costituire un ostacolo alla formulazione di scelte morali adeguate.

In effetti, SARS-CoV-2 ci mette di fronte, nello stesso tempo, a una serie di scelte di etica individuale ed etica pubblica che richiedono un vero e proprio salto gestaltico, cioè una complessiva riorganizzazione delle nostre categorie e delle nostre mappe morali.

La riorganizzazione deve passare senz’altro per un lavorìo di tipo culturale. In tal senso, la Filosofia morale in primis e l’Etica Applicata, a partire dagli anni 60-70, hanno elaborato modelli normativi -deontologia, consequenzialismo, etica della virtù, etc.- utili a fornire delle linee guida per l’azione degli individui e per la strutturazione di adeguate politiche pubbliche (pensiamo ai contributi dell’utilitarismo sul tema dell’allocazione delle risorse sanitarie in regime di scarsità o ai contributi del deontologismo, ad esempio del modello principialista elaborato da Beuchamp e Childress, per l’etica clinica). Tuttavia, di fronte all’urgenza delle scelte da intraprendere e alla magnitudo dei problemi da affrontare (tra cui, qui ed ora, quello dell’emergenza pandemica) non possiamo escludere il ricorso ad altri strumenti in grado di agire sulle cosiddette basi biologiche del senso morale. Mi riferisco qui al cosiddetto moral bioenhancement in cui attraverso il ricorso all’editing genomico (via CRISPR-Cas9) alla farmacogenomica (utilizzo di ossitocina sintetica per migliorare gli atteggiamenti altruistico-empatici degli individui umani) e altri strumenti si cerca di fornire un ulteriore ausilio al superamento di alcuni deficit della nostra psicologia morale. Al momento non sono ancora disponibili tecniche o farmaci sicuri ed efficaci in grado di procurare effetti (persistenti o permanenti) di moral bioenhancement ma uno dei temi da discutere è se sarebbe opportuno un maggiore investimento in questa direzione. Vista l’urgenza dei problemi sul tappeto io credo che sia inopportuno sul piano morale insistere solo sugli aspetti (potenzialmente) negativi di tali forme di interventoe cominciare a ragionare soprattutto sui (potenziali) aspetti positivi. 

Tali interventi sarebbero indirizzati agli individui della specie sapiens anche se, nel caso di manipolazioni dirette della linea germinale, l’obiettivo ultimo sarebbe comunque di ottenere un potenziamento morale di specie.

Qui bisogna essere chiari perché in questo passaggio vengono chiamati in causa due termini, individuo e specie, che costituiscono l’oggetto delle osservazioni critiche della professoressa Sgreccia. L’individuo rischierebbe di diventare, all’interno del progetto di moral bioenhancement, una funzione d’uso della specie, cioè la mera pedina di un obiettivo che finisce per trascenderlo.

Ora, io in parte respingo questa obiezione, in parte, invece, ritengo evidenzi uno stato-di-cose effettivo ma non credo, come la professoressa Sgreccia, che rappresenti un punto di debolezza all’interno della mia riflessione. L’individuo resterebbe comunque centrale per un verso, anche all’interno di un progetto il cui fine ultimo sia il miglioramento della specie. La specie, infatti, è costituita da un aggregato di individui. Dunque, affermare che stiamo potenziando la specie vuol dire che stiamo, di fatto, intervenendo sugli individui. Sono gli individui che, per effetto aggregato, migliorando favoriscono un miglioramento della specie. Sono gli individui che devono interiorizzare delle posture morali migliori. Sono gli individui che devono superare i deficit che affliggono attualmente la loro psicologia morale. Dunque, non è vero, per un verso, che l’individuo sarebbe sic et simpliciter scavalcato. È pur sempre l’individuo che deve incorporare tra le sue motivazioni e nello spazio delle sue ragioni, motivazioni e ragioni che gli consentano, ad esempio, di non attivarsi solo di fronte ai propri conspecifici, oppure di non attivarsi solo se lo scenario d’azione è prossimo nel tempo e/o nello spazio o se i destinatari del proprio agire sono vicini dal punto di vista affettivo.

(In tal senso, la formula di biorealismo esistenzialista, utilizzata dalla professoressa Sgreccia, per sottolineare la presa in carico da parte degli individui dei dati forniti dalla ricerca scientifica più aggiornata mi sembra di estrema efficacia).

D’altra parte, però, nella nuova acquisizione di posture morali adeguate a fronteggiare le problematiche messe in campo nell’attuale mondo iperconnesso e ipertecnologico, attraversato da numerose minacce esistenziali (fino alla configurazione della minaccia esistenziale par excellence, ossia la Sesta Estinzione di Massa, provocata, in larga parte, dalle attività antropiche), in qualche misura, se il progetto si concretizzasse, l’individuo (e qui, a mio avviso la professoressa Sgreccia coglie pienamente nel segno) retrocederebbe di fronte a una coscienza etica di specie che, nel permettergli di ristrutturare il proprio campo d’azione sulla base di un’etica interspecifica, solidaristica, anti-individualistica, etc., guarderebbe al soggetto non più come uno degli elementi-cardine dell’azione morale (agisco bene perché è ciò che mi rende felice, o perché ciò ne dice del mio carattere morale, o per la salvezza della mia anima, etc.) ma come pedina di un progetto più vasto in cui ogni membro della specie sapiens deve dare il proprio contributo (agisco bene pur sapendo che la mia sola azione non basterà affinché si realizzi un certo risultato e nonostante questo comporti l’abbandono di una certa idea di benessere e di un certo modo di concepire alcuni diritti individuali) per garantire il persistere della specie sul pianeta. Questo può essere un gran costo da pagare ma, e qui si pone un punto di estrema problematicità, a mio avviso vale la pena pagarlo (nella consapevolezza che siamo noi, a quanto ci è dato sapere, l’unica specie in grado di interrogarsi intorno a se stessa e intorno al destino del proprio pianeta e dell’universo stesso).

§ L’inadeguatezza delle nostre liberaldemocrazie a fronteggiare problemi globali

Un ulteriore tema da mettere a fuoco è quello del ruolo delle nostre liberaldemocrazie per la realizzazione del progetto, di specie, della salvaguardia del nostro pianeta. Al momento, infatti, al di là della messa in campo, anche attraverso modalità inedite, di strumenti come il Green Pass permane un limite strutturale alla capacità di intervento dello Stato sui nostri stili di vita. Eppure, il superamento di problemi come il surriscaldamento globale e le malattie clima-correlate, il consumo di carne rossa, l’utilizzo di veicoli inquinanti, etc. richiede una complessiva rimodulazione delle politiche pubbliche in una direzione, in parte, contraria rispetto a quella delle odierne democrazie liberali. Non credo infatti che il modello milliano sia del tutto sufficiente a fornirci gli strumenti teorici adeguati a ripensare il principio di autonomia e temi come la libertà e il benessere alla luce degli attuali scenari. Il principio del danno ci dà un primo strumento utile, questo è vero. Esso ci dice che la libertà di un individuo termina laddove il suo agire può essere causa di un danno ad altri individui e/o alla collettività. Non possiamo lasciare alla disponibilità delle scelte individuali l’indossare o meno le mascherine, se stiamo fronteggiando una pandemia. Lo stato dovrà intervenire per vietare, ad esempio, che un individuo nell’accedere ad uno spazio chiuso che non sia la propria abitazione, possa farlo senza indossare un DPI. Tuttavia, se un dispositivo del genere può essere parte di una strategia che si struttura di fronte ad un’emergenza sanitaria, altri dispositivi risulterebbero meno accettabili. Che cosa dire di una limitazione nel consumo di carne rossa? Oppure di una limitazione negli spostamenti tra un luogo e l’altro (ad esempio il divieto di effettuare più di uno spostamento all’anno fuori dal proprio stato utilizzando l’aereo, se non per ragioni di lavoro)? Oppure delle limitazioni nel possesso di autoveicoli inquinanti e della possibilità di utilizzarli per gli spostamenti urbani?

Limitazioni del genere impatterebbero sugli stili di vita individuali. Tuttavia, di fronte a problemi come il surriscaldamento globale, le ripetute epidemie e pandemie (dal 2000 oltre dieci), l’emergere di fenomeni come l’antibiotico resistenza (legato in parte agli eccessivi consumi di carne), etc. e di fronte alla minaccia esistenziale estrema (The Ultimate Harm) le vie da seguire mi sembra non possano essere che le seguenti:

1) continuare ad assegnare all’individuo il primato nella scelta del proprio stile di vita;

2) introdurre strumenti di disincentivo di comportamenti dannosi per la collettività e la biosfera che possono assumere la forma di gentle nudge o hard shove (ossia spinte leggere o spinte robuste ad assumere determinate posture comportamentali);

3) Sic et simpliciter obbligo da parte dello stato ad assumere determinati comportamenti.

La terza forma mi sembra sia quella adottata in Paesi come la Cina, ad esempio, per la gestione della pandemia. La prima forma è quella che caratterizza (o almeno ha caratterizzato) in larga parte le società di matrice liberaldemocratica. La seconda forma è quella che, per certi versi, alcuni Paesi stanno iniziando a sperimentare per contrastare la pandemia di SARS-CoV-2 (pensiamo al Green Pass in Italia, oppure a misure simili adottate in Austria e Francia).

Ora, io ritengo che progressivamente sia inevitabile (e in questo passaggio fornisco una previsione, non un giudizio morale) l’introduzione di ulteriori strumenti per limitare comportamenti dall’elevato impatto ambientale. Ritengo che nei prossimi mesi e anni sperimenteremo ad esempio l’introduzione sempre più capillare di strumenti di disincentivo all’acquisto di veicoli inquinanti o all’acquisto di bevande zuccherate e di carne rossa. La natura di tali disincentivi sarà da valutare con attenzione. L’auspicio è che attraverso campagne pubbliche di natura informativa si arrivi ad un cambio generalizzato degli stili di vita individuali tale da rendere non necessario l’utilizzo di spinte pesanti (ad esempio la rimozione di alcuni benefit sanitari per i soggetti che eccedono nel consumo di carne rossa, alcool o tabacco). Tuttavia, soluzioni più drastiche non possono essere del tutto escluse.

Tale riflessione mi spinge a sottolineare la necessità di un impegno da parte di vari attori (decisori politici, operatori sanitari, intellettuali, Docenti universitari, etc.) a evitare che la situazione generale peggiori e che si arrivi al punto da rendere inevitabile una compressione delle libertà individuali di fatto, poi, incompatibile con il mantenimento di una cornice, per quanto rivista e ristrutturata, di matrice liberale. Dunque, impegno nei termini dell’informazione e della mission etica di sensibilizzazione dei cittadini sui vari problemi, nella consapevolezza, tuttavia, che potrebbe non bastare. A quel punto si porrà, inevitabilmente, l’interrogativo “Che fare?” e la risposta, verosimilmente, non sarà semplice né sarà accolta con favore da tutti.

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