Il termine futile deriva dal latino futtilis, che significa “chi o che cosa non riesce a contenere e facilmente emette, versa”. In senso proprio, futtilis è il cane che continuamente evacua, oppure il ghiaccio, che è fragile e si scioglie. Per traslato, futtilis diviene ciò che è vano e leggero.[1]
Nelle lingue moderne futile e futilità si riferiscono perlopiù a comportamenti o azioni inutili e inefficaci nel produrre un risultato desiderato, anche se i termini mantengono il significato originario di inanità e leggerezza, quale nell’espressione futili motivi (futile reasons in inglese), circostanza aggravante l’ammontare della pena di un crimine.
Una definizione di medical futility e il dibattito in corso
Benché il dibattito contemporaneo sulla futilità in medicina (medical futility) sia iniziato nei Paesi anglosassoni soltanto attorno al 1970, i concetti che esso sottende sono antichi. Uno sconosciuto Autore ippocratico, nel De Arte, affermava infatti che i medici devono rifiutare di trattare coloro che sono sopraffatti dalla malattia, riconoscendo che in queste circostanze la medicina è impotente[2]. Sin dagli albori dell’arte medica, la futilità è quindi stata riconosciuta come tale da parte dei sanitari stessi, piuttosto che dai pazienti. Erano i medici che, in base alle proprie conoscenze e alla propria autorità, decidevano se adottare o meno determinati provvedimenti di cura.
A tutt’oggi, non esistono un’univoca definizione o uno standard condiviso di futilità medica, anche se alcuni commentatori concordano che essa debba essere riferita alla virtuale impossibilità che un intervento medico raggiunga gli scopi per cui esso viene adottato. La difficoltà di giungere a una definizione condivisa potrebbe derivare dal fatto che la semantica della parola futilità rimanda, oltre che al concetto di inutilità di un intervento, che può essere valutato su base empirica, anche a un giudizio di valore sul processo e sullo scopo dell’azione medica che si vuole attuare.
Il dibattito sulla futilità medica divenne più vivace nella comunità scientifica nell’ultimo decennio del secolo scorso, in risposta a un movimento che tentava di convincere la società che i medici potevano usare la propria capacità di giudizio e i dati epidemiologici disponibili per definire se un determinato trattamento fosse futile in una determinata situazione. L’idea dei medici era quella che, una volta che la determinazione di futilità era stata fatta, essi potevano non iniziare o sospendere il trattamento giudicato futile, anche superando le obiezioni di un paziente competente (o di chi rappresentava un paziente incompetente).
Due tipologie di futilità
In questo contesto, Schneiderman et al. proposero, nel 1990, una duplice definizione di futilità, la prima formulata in base ad assunzioni statistiche largamente accettate e la seconda grazie a quelle che essi consideravano come nozioni di senso comune. Tali Autori distinsero così una futilità quantitativa ed una qualitativa.
In senso quantitativo, “quando i medici concludono (tramite la loro personale esperienza, o tramite l’esperienza condivisa con i colleghi, o tramite considerazioni che si basano su dati empirici riportati) che negli ultimi cento casi un determinato trattamento è stato inutile, essi devono considerare quel trattamento come futile” [3]. L’argomento più forte contro questa definizione quantitativa della futilità, tuttavia, si fonda sulla considerazione che esso dà una risposta insoddisfacente alla piccola percentuale di pazienti che potrebbero beneficiare dall’intervento[4].
Accanto alla valutazione quantitativa, gli Autori aggiungevano che doveva essere preso in considerazione anche il giudizio qualitativo sulla futilità di un intervento medico. Doveva cioè essere valutato come qualitativamente futile ogni trattamento che “preservava soltanto la vita in un contesto di permanente incoscienza, o che era incapace di porre termine a una dipendenza totale nell’ambito della terapia intensiva”. L’assunzione sottesa a questa definizione è che non tutti gli interventi, che hanno una efficacia nel trattamento di un paziente, portano benefici al paziente medesimo e che, di conseguenza, i medici non hanno alcun obbligo etico a fornire un trattamento che, in base alle precedenti considerazioni, essi considerano futile.
Purtroppo, un simile approccio, che tiene conto in modo inestricabile sia del valore che viene assegnato allo scopo del trattamento, che dei mezzi impiegati per raggiungere tale scopo, male si presta nella casistica a giudizi sulla futilità di un intervento sanitario che siano condivisi da tutti i medici e, soprattutto, che siano accettati da tutti i pazienti.
I casi Marasco ed Herrera: si trattò di futilità medica?
Basandoci sulla prima definizione di futilità che abbiamo sopra riportato (virtuale impossibilità che un intervento medico raggiunga gli scopi per cui esso viene adottato), cerchiamo di applicarla ai casi Marasco ed Herrera, esaminati nel primo post e nel secondo post di questa serie.
E’ chiaro che il trattamento che i medici di Bari imposero al piccolo Davide Marasco fu futile, né poteva essere altrimenti, considerando le modalità con cui fu condotto. Possiamo dire che i medici sbagliarono, non valutando correttamente la futilità del percorso che avevano deciso di intraprendere, contro il volere dei genitori.
Invece, nel caso Herrera, stando alla narrazione che ne fa la madre, i medici, prima di acconsentire a mettere in atto il trattamento sperimentale da lei stessa richiesto, esitarono a lungo, giudicandolo futile. La donna, che è una politica statunitense, fa intendere in un’intervista che riuscì a ottenere la cura desiderata per la sopravvivenza della figlia, anche grazie alla sua posizione sociale. A posteriori (ma solo a posteriori) siamo certi che la terapia praticata alla madre e alla piccola Abigail Herrera non fu futile.
Nel caso di Davide, dunque, un trattamento percepito dai genitori del neonato come accanimento terapeutico si dimostrò futile. Reciprocamente, una terapia che non fu vissuta dalla mamma e dal papà di Abigail come accanita non risultò futile. Dobbiamo concludere che accanimento e futilità rappresentino sempre le due facce della stessa medaglia?
Nel prossimo post analizzerò alcuni casi clinici controversi, nei confronti dei quali i giudizi di futilità e di accanimento non necessariamente coincideranno.
[1] F. Calonghi. Dizionario Latino-Italiano (3a edizione). Ed. Rosenberg & Sellier, Torino. 1967.
[2] Lascaratos, J. et al. Abandonment of Terminally Ill Patients in the Byzantine Era. An Ancient Tradition? Journal of Medical Ethics 1999; 25:254-258.
[3] L.J. Schneiderman, N.S. Jechker and A.R. Jonsen. Medical Futility: Its Meaning and Ethical Implications. Annals of Internal Medicine, 1990; 112:949-954.
[4] D.C McGee, A.B. Weinacker, T.A. Raffin. The patient’s response to medical futility. Arch Intern Med. 2000;160:1565-6.