La notte del 13 agosto 1980 ero di guardia come anestesista-rianimatore presso l’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli (Roma). Allora la guardia notturna era coperta da un unico medico sia per il reparto di Rianimazione che per la sala operatoria, con un reperibile fuori, pronto a raddoppiare per ogni necessità. Tra le 23.00 e le 23.30, dopo la visita serale ai malati di Rianimazione, ero andato a prendere un caffè con i colleghi infermieri della sala operatoria.
Ci affacciammo tutti e tre, la ferrista, l’infermiere di sala e io alla finestra posta alla fine del corridoio del reparto operatorio che dava sul piazzale dell’ospedale. L’ausiliario ascoltava musica da una radio a transistor poco distante.
Mentre si parlava del più e del meno, in sottofondo, il suono di una sirena di ambulanza incominciò a farsi strada nelle nostre teste.
Meccanicamente, la ferrista si fece indietro e si avviò nella sala di chirurgia d’urgenza. L’infermiere scosse l’ausiliario che andò a chiamare l’ascensore. Io entrai in sala per verificare che il respiratore, la monitorizzazione, i farmaci per l’anestesia e i fluidi fossero tutti disponibili. Saliva per i tornanti della statale Tiburtina verso Tivoli, e il suono era sempre più intenso.
La ferrista, l’infermiere di sala e io ci guardammo.
Capimmo, non so sulla base di che cosa, che era per noi, ma anche che non sarebbe stato semplice. Come da regola, l’ausiliario scese in Pronto Soccorso per la prima occhiata. Confermò al telefono che era per noi. E nemmeno una roba semplice. Salirono in ascensore i ginecologi, il medico del Pronto e la barella con sopra una ragazzina di 15 anni si e no.
Sul lenzuolo davanti alle cosce una pozza di sangue. Lei pallida respirava a fatica. Gli occhi sbarrati. Sudata fradicia.
Quando fummo in grado di iniziare la pressione arteriosa sistolica era di 60 mmHg e la frequenza cardiaca di 160 bpm.
La mettemmo sul tavolo operatorio direttamente col lenzuolo della barella.
Tra le gambe un mucchio di anse intestinali.
Aprendo l’addome fu chiaro che l’utero era stato sfondato durante una manovra di raschiamento per interrompere una gravidanza e invece del feto quello che era stato tirato via era l’intestino.
Morì dopo una settimana di alterne vicende legate a uno shock settico.
Per inciso era una Rom.
Io sono diventato non obiettore così. Io non ho avuto modo di fare equilibrismi intellettuali. Ho dovuto scegliere se stare dalla parte del Sistema Sanitario Nazionale o della mia coscienza che, detto tra noi, all’epoca nemmeno se l’era posto il problema.
Ho scelto. Sono diventato abortista. Anestesista abortista. Ospedaliero. Dopo non è stato facile. E c’è stato un momento in cui ho dubitato della mia scelta. Come al solito ci si sente un po’ male quando troppo è troppo.
Poi le statistiche dicono oggi che il tasso di abortività nel nostro Paese si è ridotto significativamente. Sono contento perché se io e tutti quelli che come me hanno continuato in quegli anni non avessero tenuto duro, quel tasso di abortività sarebbe rimasto confinato ai tavoli da cucina delle mammane. Anche a questo abbiamo posto rimedio. Non abbiamo completamente risolto. No. Ma quella roba che ho visto io la notte del 13 agosto del 1980 oggi mi piace credere che nessun medico la veda più.
Questo è ciò che conta per me.
Io ho scelto di fare il medico.
Questo post è già stato pubblicato sul blog nottidiguardia.it in data 8 marzo 2017. https://nottidiguardia.it/author/folfox4/
Un testo di una semplicità sconvolgente, asciutto e molto commovente: grazie dottor Gristina, come donna, come socia da anni della Consulta di Bioetica, come cittadina. Dovremmo moltiplicare testimonianze di questo genere, arrivano dritte al cuore senza perifrasi né infingimenti; ma significano anche che le battaglie non sono mai vinte una volta per tutte e che le conquiste vanno difese dovunque sia possibile, con forza d’animo e determinazione.