Dissipatio H.G., Guido Morselli

– di Sarah Dierna –

Dissipatio H.G. è un romanzo, ma non è solo un romanzo. È un cammino che si percorre da soli, come solo è il suo protagonista.

Sospeso tra la volontà di andarsene «senza lasciare traccia»[1] – così, infatti, inizia la storia – e l’attesa, alla fine, accompagnata ancora da un ultimo residuo di speranza, a «guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità si prepara»[2]. Eternità che per Morselli non è assenza di tempo, stasi, ma «permanenza del provvisorio»[3], permanenza di qualcosa che è destinata – come ogni altra cosa che esiste – a durare un po’ e a scomparire. Questo evento nell’umano lo chiamiamo morire.

Benché dalla vicenda traspaia un’inevitabile tonalità anti-antropocentrica (tonalità che la bioetica, in quanto etica del bios non può trascurare), come dimostra la dissipatio Humani Generis e il ritorno dell’animalità non umana a ripopolare la città di Crisopoli ora «ridotta a Necropoli»[4], c’è una più profonda realtà che emerge dalla lettura del romanzo. La finitudine dell’uomo. Una vita ontologicamente segnata dalla sofferenza. Una vita per cui «morire biologicamente, è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora»[5].

C’è una profonda consapevolezza della morte in Guido Morselli, che – non a caso – si tolse la vita nello stesso anno (1973) in cui uscì il romanzo. La consapevolezza che ci sono circostanze che fanno della propria esistenza un fardello (per chi la vive) talvolta troppo difficile da sopportare, e per cui la vita diventa, pertanto, «una spirale all’ingiù», pressappoco simile a un imbuto dove le «pareti in ultimo si fanno verticali»[6]. È in questo momento che «amiamo la morte»: non si tratta di «furore suicida, non è l’istinto di morte supposto dalla psicologia. L’uomo in realtà è passivo. […] E questo epilogo, per moltissimi o per tutti, sarà la soluzione di problemi insolubili, il rimedio insperato di mali insoffribili»[7]. Come tale dobbiamo pensare la morte quando viene richiesta da individui prostrati da gravi mali e senza margine di miglioramento. In questi casi, come lo stesso autore ha sostenuto per definire la propria difficile esistenza, essa (la morte) non interrompe nulla, completa piuttosto una condizione in cui ci si trova già ora. Se infatti, sempre la morte, è descritta come «impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza»[8], la stessa impartecipazione, insensibilità e indifferenza, contraddistingue adesso la realtà pulsante (perché c’è un cuore che batte ancora) di molti pazienti che – prima ancora di volere la morte – hanno sperimentato la vita, hanno partecipato delle sue gioie e l’hanno sentita in tutte le sue molteplici manifestazioni.

Nel suo girovagare alla ricerca di qualche altro uomo che – come lui – sia sopravvissuto alla notte del 2 giugno, l’ex-uomo (così si definisce il protagonista del romanzo) troverà soltanto una sua traccia, vale a dire, un biglietto che riecheggia della consapevolezza della fine ormai prossima:

soddisfatta del nostro consenso, tacito ma unanime, stanotte Essa verrà a prenderci, senza agonia per noi, senza angoscia. […]. Quanto a me, che ho 27 anni, verrà prematura? No. Sono con loro e come loro. Primo strumento involontario, ora offerto oggetto di morte”[9].

Senza agonia per noi, senza angoscia. Perché di agonia e angoscia è invece pervasa un’esistenza piegata da sofferenze incurabili. Perché quando la vita non è più quella donna che Piergiorgio Welby ha così plasticamente descritto[10], per alcuni la morte diventa l’unica alternativa possibile. L’unica donna amabile. L’unica scelta alla quale si è disposti a dare il consenso.

La volontà di morire del protagonista (e, in fin dei conti, la scelta dello stesso Morselli) non ha nulla di medicalmente assistito, per come intendiamo la pratica medica del fine-vita, ma riesce a descrivere la morte – indipendentemente dal compiersi o meno dell’evento, si può interpretare quello che successe dopo la notte del 2 giugno in tanti modi – con freddezza, disincanto e insieme partecipazione; riesce a  pensarla (sempre la morte) come risposta alla propria sofferenza (la stessa risposta a cui certi pazienti giungono); la riconosce, infine, come preferibile alla vita.


[1] G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2012, p. 21.

[2] Ivi, p. 142.

[3] Ivi, p. 133.

[4] Ivi, p. 63.

[5] Ivi, p. 73.

[6] Ivi, p. 22.

[7] Ivi, p. 91.

[8] Ivi, p. 74.

[9] Ivi, p. 91.

[10] Cfr. Lettera di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica Napolitano (disponibile in rete).

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