Quando si parla di aiuto alla morte volontaria, si fa generalmente riferimento a due distinte modalità: l’eutanasia volontaria e il suicidio medicalmente assistito.
L’eutanasia volontaria (di seguito, eutanasia) è l’atto con cui qualcuno – di solito un medico che inietta un farmaco mortale – pone fine alle sofferenze, divenute irreversibili e insopportabili, di chi ha chiesto di morire. Con il suicidio assistito, invece, chi chiede di morire assume da sé il farmaco mortale, che ha richiesto e che qualcuno gli ha prescritto e consegnato.
Molti commentatori considerano la differenza fra le due procedure non significativa dal punto di vista morale, dal momento che le ragioni per cui qualcuno chiede di morire sono le stesse nei due casi (sofferenze irreversibili e insopportabili), così come è identica la conseguenza (la morte). Inoltre, se è vero che nel caso del suicidio assistito l’atto finale che provoca la morte è eseguito da chi è interessato a morire, qualcun altro deve comunque avergli prima fornito il farmaco mortale. Su questa base, diversi autori hanno sostenuto che il suicidio assistito, nel corso del quale chi vuole morire assume da sé il veleno, non comporta una differenza morale rispetto all’eutanasia volontaria, in cui è un’altra persona colei che provoca direttamente la morte di chi l’ha chiesta[i].
Al contrario, l’ipotesi che sarà sviluppata in questo post è che l’eutanasia e il suicidio assistito, oltre ad essere diversi dal punto di vista procedurale, possano essere differenti anche da un punto di vista morale.
Giustificazione morale dell’eutanasia e del suicidio assistito
Sia la giustificazione morale dell’eutanasia che quella del suicidio assistito presuppongono che la vita umana – perlomeno in determinate circostanze – venga considerata come un bene disponibile.
Per coloro che accettano questo presupposto, l’eutanasia e il suicidio assistito, come è stato argomentato in post precedenti, appaiono entrambi moralmente giustificabili sulla base del principio del rispetto per l’autonomia. In base a questo principio, si considera giusto che una persona, che si trovi in determinate condizioni, abbia il diritto di autodeterminarsi sino a chiedere che sia posta fine alla propria vita. Tuttavia, molti autori ritengono che questo principio, benché forte, non obblighi altre persone ad uccidere chi ha chiesto di essere aiutato a morire. Invece, è in base al principio di beneficenza che una persona può essere moralmente tenuta ad aiutare a morire chi ne ha volontariamente fatto richiesta.[ii]
La giustificazione dell’aiuto alla morte volontaria (eutanasia o suicidio assistito) si basa quindi su due principi etici generalmente accettati, quello del rispetto per l’autonomia e quello di beneficenza. In base al primo si può riconoscere il diritto di autodeterminarsi della persona autonoma, posto che le conseguenze della sua scelta non abbiano un significativo impatto negativo su altri individui. In base al secondo, chi si trova nelle condizioni di potere fare del bene a un’altra persona, senza costi eccessivi per se stesso, può essere moralmente obbligato a farlo.
Per quanto si è detto, rispettare efficacemente l’autodeterminazione della persona che ha scelto di essere aiutata a morire presuppone quindi che si eserciti nei suoi confronti anche la beneficenza. Il problema riguarda se, in questo caso, l’atto beneficente di togliere la vita a chi ne ha ragionevolmente fatto autonoma richiesta sia moralmente dovuto o se si tratti invece di un atto supererogatorio (inteso come un’azione buona che non è moralmente obbligatoria e che, sul piano etico, non può essere pretesa da tutti[iii]).
L’autodeterminazione e la beneficenza nell’eutanasia e nel suicidio assistito
La scelta di andare incontro alla morte volontaria, sia tramite l’eutanasia che per mezzo del suicidio assistito, comporta dunque l’esercizio dell’autodeterminazione. Secondo alcuni autori, tuttavia, la scelta del suicidio assistito potrebbe richiedere un grado maggiore di determinazione, rispetto all’eutanasia. Basandosi sul senso comune, John Deigh ha sostenuto che uccidersi è molto più difficile che avere qualcuno che lo faccia per te. Di conseguenza, le persone potrebbero essere meno suscettibili ad uccidersi di quanto non lo siano lasciando che qualcuno le uccida[iv].
Viceversa, il suicidio assistito potrebbe richiedere a chi presta aiuto all’attuazione della morte volontaria un atteggiamento meno beneficente, di quello richiesto dall’eutanasia. Infatti, il suicidio assistito potrebbe non domandare a chi presta il suo aiuto, senza essere coinvolto direttamente nella somministrazione del farmaco letale, di compiere un atto supererogatorio, rispetto a quanto chiede l’eutanasia a colui che procura per sua mano la morte di chi l’ha sollecitata.
Due esempi
Per valutare quale può essere il ruolo del principio di beneficenza nell’aiuto alla morte volontaria, proporrò due esempi.
Nel primo esempio, un paziente con una malattia neoplastica irreversibile e progressiva a dispetto delle cure, che gli sta causando severe sofferenze fisiche e psichiche e che ne sta limitando significativamente la possibilità di compiere da solo le normali attività della vita quotidiana, sino a un punto da lui giudicato incompatibile con la propria rappresentazione di una vita dignitosa, chiede l’eutanasia. Laddove la legge lo consente, un medico è chiamato a somministrare il farmaco letale. Il medico che attua l’eutanasia agisce moralmente nel rispetto dell’autonomia del paziente e sulla base del principio di beneficenza. Tuttavia, dipende dalle convinzioni e dalle attitudini di questo medico – e probabilmente dal contesto sociale in cui egli opera – se l’azione si sarà costituita come un atto moralmente dovuto oppure come un atto supererogatorio.
Nel secondo esempio, un paziente con le stesse caratteristiche del precedente chiede invece di accedere al suicidio assistito. In questa eventualità, possiamo ipotizzare che il farmaco letale sia dispensato al paziente attraverso un servizio farmaceutico accreditato, quando ne esistano i presupposti e le condizioni. Lo stesso medico del precedente esempio, chiamato ad assistere il paziente, che da sé assume il farmaco mortale, continuerà a rispettarne l’autonomia, probabilmente senza essere chiamato a compiere un atto di beneficenza che può essere considerato supererogatorio. Infatti, né l’eventuale certificazione diagnostica e prognostica, né tanto meno l’assistenza a chi muore possono essere usualmente considerati atti supererogatori per un medico.
Al di fuori di questi esempi, nella vita reale, continueranno naturalmente a esistere medici che non considereranno il loro aiuto alla morte volontaria tramite eutanasia come un atto supererogatorio e altri che, al contrario, considereranno come supererogatoria anche l’assistenza al suicidio.
Gli esempi sopra riportati intendono soltanto evidenziare che, da un punto di vista morale, l’eutanasia può richiedere a chi coopera alla morte volontaria una più esigente adesione al principio di beneficenza, rispetto a quanto domandato dall’assistenza al suicidio.
Esiste una differenza morale?
L’attuazione dell’eutanasia, sollecitata da un individuo competente, sembra domandare all’agente un comportamento più beneficente di quello che gli è richiesto per l’assistenza al suicidio. Ne deriva che l’aiuto alla morte volontaria tramite l’eutanasia potrebbe presentare una differenza dal punto di vista morale rispetto all’aiuto alla morte tramite il suicidio assistito.
[i] https://euthanasia.procon.org/questions/is-there-a-moral-difference-between-physician-assisted-suicide-and-active-euthanasia/
[ii] L. Vaughn, Euthanasia and Physician-Assisted Suicide, in “Bioethics. Principles, Issues and Cases”, Ed. Oxford University Press, New York, 2017, p. 630.
[iii] E. Lecaldano, Dizionario di Bioetica, Laterza, Bari 2007: p. 293.
[iv] J. Deigh, Physician-Assisted Suicide and Voluntary Euthanasia: Some Relevant Differences, The Journal of Criminal Law and Criminology, Vol. 88, No. 3 (Spring, 1998), pp. 1155-65.
Bel lavoro, Massimo, complimenti. I due strumenti sono analizzati e argomentati molto bene. A mio parere tuttavia il finis operae e il télos restano gli stessi e non so se questo pone in discussione la loro diversità sul piano morale in termini di supererogatorietà e di beneficenza, ma queste sono sottigliezze che non inficiano certo la qualità del tuo scritto.
Carissimi saluti, a presto, Carlo
Il Prof. Demetrio Neri ha inviato il seguente commento, di cui lo ringrazio:
Allora, tu sostieni che esiste una differenza morale tra eutanasia e suicidio assistito perché “l’eutanasia può richiedere a chi coopera alla morte volontaria una più esigente adesione al principio di beneficenza, rispetto a quanto domandato dall’assistenza al suicidio.” Il ragionamento non fa una grinza, ma (per complicarti la vita) mi chiedo però se non ci sia un qualche “difetto” nelle premesse.
Tu sostieni che mentre la moralità della richiesta di morire è fondata sul principio di autodeterminazione, la moralità dell’accoglimento di tale richiesta da parte del medico va fondata sul principio di beneficenza. Se si condivide quest’ultima premessa del ragionamento, la conclusione che tu ne trai è certo valida (c’è un differente grado di coinvolgimento nelle due pratiche, forse importante sul piano psicologico), ma occorre chiedersi se sia necessario, e perché, introdurre questa premessa. Ho qualche dubbio in proposito. Ho sempre pensato che il principio di autonomia (o autodeterminazione) sia condizione necessaria e (sul piano morale, beninteso) sufficiente per stabilire sia la moralità della richiesta, sia la moralità dell’accoglimento della richiesta, senza che sia necessario, per quest’ultima, di ricorrere al principio di beneficenza. Questo principio richiede di impegnarsi a “fare il bene di un’altra persona” ma, per fugare ogni deriva paternalistica, è sempre l’altra persona che deve decidere cosa è bene per lui. E allora mi chiedo se non sia più lineare fondare anche la liceità morale dell’accoglimento della richiesta e della conseguente azione (sia essa l’eutanasia, sia il suicidio assistito) ricorrendo al rispetto della scelta consapevole compiuta dal paziente in base ai suoi valori. Rispettare l’autonomia è parte importante della moralità e aiutare qualcuno a morire è un modo concreto di manifestare la propria adesione al principio del rispetto per l’autonomia.
Si guadagna qualcosa introducendo il principio di beneficenza? Il discorso sarebbe lungo, voglio solo dire che il problema che abbiamo di fronte non è tanto quello della giustificazione morale di singoli atti di eutanasia o di suicidio medicalmente assistito, ma quello della giustificazione morale di una pratica prevista da una legge. E a questo fine ( e cioè al fine di costruire una buona legge) a me sembra che il ricorso al principio di autonomia e al rispetto dell’autonomia offra una base più gestibile sul piano giuridico. Ma questo è un altro discorso.
Comunque, questa mia convinzione non toglie che il tuo ragionamento, finché resta sul piano morale, sia accettabile. E’ un altro modo di vedere la questione.
Ciao, Demetrio.