Negli ultimi tempi la carenza di medici e i disservizi verificatisi in tante strutture ospedaliere sono brutalmente venuti all’attenzione dei media, alimentati da clamorosi episodi che hanno evidenziato il grande disagio sia dei pazienti che degli operatori sanitari, tanto da potersi parlare di una vera e propria “Questione medica”, talmente sentita e importante da essere stata oggetto anche di una Conferenza Nazionale organizzata dall’Ordine dei Medici il 21 Aprile u.s.
La pandemia prima e i casi di cronaca segnalati recentemente in numerosi nosocomi sono abbastanza noti a chi direttamente o indirettamente abbia avuto esperienze in tal senso, ma sono risultati particolarmente stridenti ed evidenti nei reparti di Pronto Soccorso, dove la professionalità e la tempestività delle scelte terapeutiche dovrebbero invece essere più elevate; la carenza di medici , le diagnosi talvolta sbagliate o le dimissioni eccessivamente frettolose, il degrado delle strutture o la mancanza di apparecchiature diagnostiche basilari sono elementi che non si dovrebbero mai verificare in ogni struttura del servizio sanitario nazionale che voglia operare dignitosamente e con sicurezza nella routine quotidiana.
Le urgenze in particolare si sono spesso trovate nel caos più completo e le denunce e le segnalazioni dei pazienti sono cresciute in maniera drammatica, tanto che il burn out degli operatori sia medici che non medici sta arrivando alle stelle e provoca come conseguenza (speriamo non inarrestabile) il loro pensionamento anticipato o la fuga nei centri privati.
Le nuove strutture sanitarie, moderne, costose e all’avanguardia, programmate oggi e che saranno costruite domani, rischiano di restare scatole vuote se non si argina la drammatica fuga dei professionisti sia medici che infermieri, molti dei quali se ne sono già andati non ritenendo possibile reggere alla frustrazione di non riuscire a mantenere alti standard qualitativi in queste difficili situazioni.
Non si dice certo nulla di nuovo a sottolineare questi punti dolenti, che si avvertivano più o meno silenti da tempo e che l’emergenza COVID ha aggravato, ma più di recente le situazioni di disagio, disorganizzazione o di vera e propria confusione hanno superato livelli di guardia altre volte comprensibili o accettabili.
Non si vuole con questo colpevolizzare gli operatori, in quanto medici e infermieri lavorano spesso con grande coraggio e dedizione anche quando possono trovarsi al limite delle proprie capacità psicofisiche, ma sottolineare la loro impossibilità di lavorare garantendo servizi di buon livello a causa delle carenze sempre più marcate di organici e di organizzazione; appare comunque impossibile non stupirsi della relativa acquiescenza dell’opinione pubblica verso questo stato di cose, che sembrano venire quasi accettate passivamente come inevitabili, mentre sovente da certe lacune e dalle scelte decisionali che comportano dipendono la vita o la morte dei pazienti, oltre a loro diritti fondamentali quali il diritto alla salute, il diritto al consenso informato e consapevole e quindi la tanto enfatizzata centralità e autodeterminazione, diritti autonomi e precisi che non dovrebbero e non devono mai essere violati, indipendentemente dal successo o meno delle prestazioni terapeutiche.
Non è il caso di entrare in questa sede in dettagli più strettamente di tipo tecnico-organizzativo che la pandemia COVID ha ulteriormente slatentizzato (la prevenzione, le difficoltà o le carenze dei medici di base, i difficili rapporti ospedali-territorio, le criticità situazionali e cliniche dei pazienti anziani, i tagli e le riduzioni dei servizi etc.); mi preme invece sottolineare non solo le lacune macroscopiche di certe aziende universitarie o ospedaliere (già il termine “azienda” appare completamente inadeguato a delineare strutture che sono luoghi dove si dovrebbe praticare l’etica della cura e la relazione d’aiuto, luoghi cioè di dolore e sofferenza dove ci si rapporta con la vita o con la morte) quanto lo stravolgimento profondo della relazione medico-paziente che può avere molto influito sul “moral distress” dei medici stessi e sull’insoddisfazione dei pazienti.
Sono del parere che da parte del medico vada recuperato il senso del proprio ruolo in termini etici e psicologici, ruolo che implica come la presa in carico debba avvenire con modalità comportanti vicinanza, empatia, responsabilità, in altri termini attraverso l’esercizio di una medicina della prossimità, contrapposta ad una medicina della distanza praticata solo ed esclusivamente con criteri tecnico-scientifici. Prossimità, servizio, accompagnamento relazionale sono imperativi etici fondamentali dell’essere medico, che ci rimandano in senso antropologico alle nostre radici primarie e che probabilmente ci permetterebbero di meglio tollerare le fatiche fisiche , le tensioni emotive e le frustrazioni che possono costituire le cause del burn out, non disgiunte certo da fattori gestionali, organizzativi ed economici, importanti ma da soli insufficienti a realizzare il salto morale che dia al medico il senso di realizzazione dei valori che lo hanno indotto a scegliere questa professione.
Per quanto riguarda il paziente, ritengo indispensabile che recuperi un rapporto di fiducia e stima verso il proprio medico, che detiene le conoscenze, senza certo ripristinare un paternalismo definitivamente superato ma ricostruendo un rapporto di alleanza che l’uso eccessivo e distorto della web-medicine ha completamente disintegrato, innescando come spesso abbiamo osservato pericolose derive di autodiagnosi e autocura, un “fai da te” che può rischiare veramente di diventare molto pericoloso senza le necessarie competenze e senza verificare l’attendibilità delle fonti di informazioni.
Ritengo queste ultime riflessioni fondamentali, forse ovvie ma essenziali e indispensabili per migliorare da un lato la qualità dell’assistenza e soprattutto opporsi alla fuga dei medici dagli ospedali per crisi di valori, motivazioni e medical distress e dall’altro per non avvalorare il noto paradosso secondo cui mai come oggi la medicina ha raggiunto livelli solo pochi anni or sono impensabili e mai come oggi il paziente è spesso profondamente insoddisfatto di come viene curato.