Obiezione di coscienza e diritto alle cure: due facce della stessa medaglia?

– di Fabio Diegoli –

La questione dell’obiezione di coscienza nel nostro Paese torna ciclicamente a fare notizia, a causa dei problemi che, secondo i contestatori, creerebbe all’accesso all’aborto. Anche in bioetica non manca di ricevere le sue attenzioni. Solitamente difesa come strumento necessario alla protezione dell’integrità del medico e della deontologia professionale e attaccata in quanto minerebbe il diritto alle cure di alcuni pazienti, l’obiezione di coscienza rimane un compromesso legale tra posizioni, a mio avviso, inconciliabili.

Parto dalla premessa che personalmente trovo l’obiezione di coscienza in sanità difficilmente giustificabile, dal momento che sembra postulare una qualche forma di relativismo, sia nella valutazione della pratica in questione, sia nella valutazione della professione medica, spesso in realtà osteggiato sia dai detrattori che dai sostenitori dell’obiezione di coscienza. Se consideriamo l’aborto al pari di un omicidio e quindi affermiamo che non fa parte della pratica medica, allora dovremmo puntare a renderlo illegale, non a permettere ad alcuni medici di astenersi. Parimenti, se consideriamo l’aborto una pratica medica come le altre, diventa difficile difendere il diritto del medico ad astenervisi. Inoltre, trovo sia un’arma a doppio taglio, soprattutto per coloro che sono contrari all’aborto: se l’aborto venisse reso illegale, come auspicano alcuni, questo potrebbe portare vari medici ad appellarsi proprio all’obiezione di coscienza al fine di praticare aborti, nel caso la coscienza dicesse loro che quella è la cosa giusta da fare.

Non è questo il punto del mio articolo però. Come cercherò di mostrare a breve trovo che, a prescindere dalla propria posizione, la questione dell’obiezione di coscienza sia irrisolvibile, se non ad un’unica condizione che poi esporrò. Ma andiamo per ordine.

La prima domanda che mi viene da porre è: chi decide cosa fa parte dei compiti del medico?

Istintivamente si potrebbe dire che è la legge a deciderlo. Se una pratica è legale allora il medico è obbligato a praticarla. Eppure, a pensarci bene, non può essere così. Se la legge permettesse ai medici di sterilizzare alla nascita le persone disabili o di praticare mutilazioni genitali sui minori, e quindi considerasse queste operazioni come parte della buona pratica medica, penso che una larghissima fetta della popolazione vi si opporrebbe e starebbe dalla parte dei medici obiettori. Difficilmente queste pratiche verrebbero considerate parte integrante del lavoro del medico solo perché legali.

Allora, se non è la legge, forse è il consenso popolare. L’aborto è ormai socialmente accettato, mentre la sterilizzazione o la mutilazione genitale coatte no. Ma anche qui sorgono gli stessi problemi. Non è difficile ipotizzare una società in cui queste pratiche siano socialmente accettate e quindi integrate alla pratica medica.

Allora magari potrebbe essere la comunità scientifica o le organizzazioni internazionali, come l’OMS, a stabilirlo. Questa posizione è sicuramente ragionevole quando si tratta di questioni puramente mediche e scientifiche, come il funzionamento dei vaccini o di determinati farmaci, ma queste organizzazioni non hanno alcuna autorità in campo etico. Questioni bioetiche come l’aborto o l’eutanasia non sono riducibili all’aspetto medico-scientifico, come sappiamo bene. La bioetica d’altronde non avrebbe senso di esistere altrimenti. Pertanto, anche questa proposta penso vada rifiutata.

Proprio a causa di questa impossibilità di trovare un’autorità definitiva che stabilisca cosa fa parte del compito del medico e cosa no penso che l’obiezione di coscienza sia in realtà un problema mal posto e non risolvibile. Servirebbe un’autorità che delucidasse i nostri problemi sulla natura della medicina e su cosa significhino i concetti di salute e malattia. A quel punto però non avremmo più zone grigie: una pratica verrebbe ritenuta o compatibile con la deontologia medica oppure no. Non ci sarebbe comunque spazio per l’obiezione di coscienza.

Per questi motivi ritengo che, a queste condizioni, l’unica possibilità sarebbe quella di rendere illegale l’obiezione di coscienza, dando al contempo arbitrariamente il potere ad una qualche autorità, ad esempio la legge, di stabilire cosa fa parte del compito del medico, nella speranza che agisca in maniera ragionevole, corretta e imparziale. Devo dire però che, proprio per le ragioni sovraesposte, questa alternativa non la trovo per niente attraente e mi sembra essere frutto di una visione forse troppo idealistica della realtà.

La soluzione che voglio proporre è quindi un’altra: eliminare l’obiezione di coscienza e sostituirla con un altro diritto che già esiste e che porta a risultati simili, pur essendo meno controverso.

Partiamo da un breve ragionamento. Spesso si pensa che i medici non obiettori siano medici per così dire “neutri”, che vanno bene a tutti perché offrono tutti i servizi permessi dalla legge. Questo è anche uno degli argomenti di chi vuole abolire l’obiezione di coscienza. Ma questa idea, a ben vedere, non è così pacifica. Pensiamoci bene. Prendiamo il caso di una donna fortemente contraria all’aborto che ha bisogno di un ginecologo per la sua gravidanza o per qualsiasi altra cosa. Questa donna andrebbe mai da un ginecologo non obiettore, ovvero un ginecologo che considera un omicida e che contravviene alle regole di quella che lei considera una buona pratica medica? Io ne dubito altamente. Una persona contraria all’eutanasia avrebbe piacere a farsi seguire nella sua malattia terminale da un medico che non ha problemi a praticare l’eutanasia? Anche qui, trovo ci siano molti dubbi. Penso sia infatti importante ricordare che se ci sono persone che cercano appositamente medici non obiettori, non è difficile credere che ci siano anche persone che cercano appositamente medici obiettori. Non a caso ad esempio, negli Stati Uniti, esistono siti, come quello dell’American Association of Pro Life OB/GYNS, che permettono di ricercare ginecologi “prolife” nella propria area. Donne genuinamente e fortemente contrarie all’aborto non vorrebbero mai farsi visitare da medici che li praticano. Questo stesso articolo, d’altronde, nasce proprio a seguito di alcune conversazioni che chi scrive ha avuto con donne contrarie all’aborto.

Se le cose stanno così, l’obiezione di coscienza può essere forse riformulata dal punto di vista del paziente. Non più intesa come un’obiezione ad una pratica medica da parte del medico, ma come diritto del paziente a scegliere il medico curante migliore per sé stesso, un diritto che per altro esiste già. Allora l’obiezione di coscienza andrebbe garantita proprio per questo motivo, per proteggere determinati pazienti. Rimane ovviamente il discorso sulla legalità e illegalità delle pratiche ma, una volta che venissero legalizzate, ogni medico sarebbe libero di praticarle o meno, in base alle proprie convinzioni ponderate. Questo non perché lui abbia il diritto di non praticarle, ma perché il paziente ha il diritto di poter trovare un medico che condivida la sua concezione della salute e della medicina.

È importante concludere però dicendo che devono comunque esserci dei limiti alla scelta del medico curante. Questi non mi sembrano tuttavia così difficili da stabilire in maniera ragionevole. Il paziente non potrà scegliere un medico che agisce contrariamente alle evidenze scientifiche attuali, ad esempio. Oppure ancora, la scelta non dovrà avvenire in base a preferenze irrazionali o a capricci personali, ma in base a ragioni difendibili e accettabili a livello pubblico. Insomma, in poche parole, la mia conclusione è questa: il paziente ha il diritto di farsi curare da un medico che condivide, a grandi linee, la sua concezione della cura e della medicina, ovviamente partendo dal presupposto che sia una concezione razionalmente sostenibile e accettabile in ambito pubblico. A questo proposito, ad esempio, un comitato di bioetica potrebbe essere estremamente importante nel valutare la sostenibilità delle varie ragioni. Per questi motivi, negli ospedali pubblici dovrebbe essere permesso di lavorare sia a medici obiettori che non obiettori, così da consentire ad ogni paziente di poter trovare agilmente un medico adatto a sé, magari anche grazie a delle liste di medici obiettori e non obiettori.

6 pensieri riguardo “Obiezione di coscienza e diritto alle cure: due facce della stessa medaglia?

  1. Premetto che non sono d’accordo sulla premessa ” l’obiezione di coscienza in sanità è difficilmente giustificabile”; il sanitario deve agire secondo scienza e coscienza, ma mentre per quanto riguarda la scienza medica vi sono delle evidenze condivise e delle metodologie per individuarle, trovo difficile pensare ad una autorità che possa imporre una coscienza universalmente condivisa riguardo al significato della vita.
    Per quanto riguarda la soluzione proposta, credo che entro certi limiti sia già possibile, da parte del paziente, la scelta del medico che, per capacità tecniche ed orientamento etico, possa considerarsi di ‘fiducia’.
    Dobbiamo comunque tener conto della evoluzione, nel tempo, dell’etica del paziente, e quindi della possibilità che quanto sia condivisibile con il medico scelto in una certa fase della vita, non lo sia poi ‘per sempre’ , con la conseguente tendenza a cambiare il professionista di riferimento, quando ci si scontri su di un argomento prima non affrontato ( vaccinazioni, per fare un esempio di attualità).
    Una simile evoluzione è d’altronde presente anche nella etica del medico; basti pensare al notevole divario tra la percentuale di obiezioni all’addestramento all’uso delle armi, prima dell’inizio della specializzazione in ostetricia e ginecologia, e quella di obiezioni all’assistenza a pazienti che chiedono l’interruzione di gravidanza, durante il percorso lavorativo.
    I nuovi ginecologi ( e da sempre le ginecologhe) non essendo stati chiamati al servizio di leva, sono esentati dal dover giustificare una eventuale incongruenza delle scelte fatte nei due ambiti, che a mio parere pongono interrogativi similari; l’argomentazione dell’uso delle armi solo in caso di difesa non è molto dissimile dall’assistere una paziente che avrebbe comunque cercato una maniera, legale o meno, per interrompere la gravidanza.
    Se il fine giustifica i mezzi, lo fa sempre, non può cambiare idea.

    1. La ringrazio molto per questa risposta che solleva alcune questioni interessanti.
      A mio avviso, il problema dell’obiezione di coscienza riguarda il fatto che, se è vero che il medico deve agire in scienza e coscienza, difficilmente può porre un limite ai servizi che eroga in un ospedale pubblico, quando questi sono considerati delle forme di terapia o di cura. Le argomentazioni in favore dell’obiezione di coscienza in sanità sono incompatibili con la legalità della pratica verso la quale si vuole permettere l’obiezione. Se una determinata pratica è considerata una forma di terapia, a tal punto addirittura da essere inserita all’interno del SSN, allora non vedo argomenti forti per rifiutarsi di effettuarla. Riferendoci all’aborto, gli argomenti in favore dell’obiezione di coscienza o conoducono all’illegalità dell’aborto oppure ad una concezione in qualche modo soggettivistica dell’etica, una concezione solitamente rifiutata sia da chi è contrario all’aborto, sia da chi è a favore della sua legalità.
      Per quanto riguarda l’evoluzione dell’etica del paziente, come dice correttamente anche lei, può essere già accolta tramite il cambiamento del medico di fiducia. Il cambiamento dell’etica del medico è un problema che invece credo vada affrontato dal medico stesso nel suo privato: se ad un certo punto non è più disposto ad eseguire determinati compiti richiesti dalla sua professione all’interno del sistema pubblico, può sempre decidere di esercitarla nel settore privato o di cambiare professione, dal momento che non si ritrova più nella sua deontologia.
      Infine, riguardo al paragone con la leva, forse si potrebbero trovare alcune differenze moralmente rilevanti, come il fatto che mentre l’uso di armi di difesa serve a proteggere da attacchi esterni che difficilmente potrebbero essere tenuti sotto controllo altrimenti, la scelta di aiutare una donna ad abortire non la protegge da nessun attacco esterno, se non da quello a cui lei stessa ha scelto liberamente di sottoporsi. Condivido e sottoscrivo comunque il suo invito alla coerenza.

  2. La lettura del contributo sull’obiezione di coscienza di Fabio Diegoli ha stimolato una serie di riflessioni (da medico piuttosto che da bioeticista quale io non sono). Provo ad esporle senza pretese di sistematicità.
    Nell’attuale contesto normativo e sociale un medico puo decidere se praticare interruzioni di gravidanza o rifiutarsi di eseguirle senza che ciò comporti incriminazioni o censure ordinistiche in quanto viene riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza. Antecedentemente all’entrata in vigore della L. 194 se un medico (sulla base di sue valutazioni etiche) avesse deciso di praticare interruzioni di gravidanza avrebbe violato la legge ed il codice deontologico e sarebbe incorso in sanzioni su entrambi i fronti. In altre parole una disposizione legislativa (peraltro supportata da una manifestazione di consenso popolare) ha profondamente inciso sulla valutazione deontologica della procedura.
    Credo che l’adeguamento della deontologia al contesto sociale e legislativo debba essere considerato un fatto positivo in linea generale, ma non in termini assoluti. Certamente le leggi e le norme deontologiche che hanno permesso ai medici di operare nei campi di sterminio e nei laboratori eugenetici nazisti, ancorchè adeguate al contesto sociopolitico in essere, non possano essere valutate positivamente. Esse avrebbero ben potuto invece essere oggetto di obiezione di coscienza in quanto la legge e la deontologia non sono gli unici criteri con cui misurarsi per decidere sui propri comportamenti.
    Le norme deontologiche possano essere considerate, a mio parere, una forma di contratto tra il medico e la società. Il medico assume una serie di impegni (a rispettare la volontà delle persone che a lui si rivolgono, a curare senza discriminazioni, a operare rispettando criteri di appropriatezza e scientificità ….) e ne riceve una serie di contropartite (libertà di cura, possibilità di opporre il segreto professionale, possibilità di violare, a certe condizioni, la legge senza subirne conseguenze …).
    Al di sopra della deontologia agisce l’etica che detta norme di comportamento valide indipendentemente dalla pratica professionale, meno sensibili al contesto sociopolitico ma suscettibili di essere variamente fatte proprie da ciascun individuo anche in dissonanza con quelle largamente condivise nella popolazione
    E’ quindi possibile che pratiche deontologicamente ammesse siano rifiutate da alcuni medici in quanto ritenute in conflitto con principi etici non rinunciabili.
    Notoriamente una di queste pratiche è l’interruzione di gravidanza nei cui confronti viene consentita al medico la possibilità di godere di obiezione di coscienza
    Ritengo che la locuzione “obiezione di coscienza” abbia, nel linguaggio comune, un significato decisamente vago e che sia forse impropria se applicata al caso specifico.
    Nata storicamente in ambito militare, quando è stata riproposta in Italia è stata invocata da chi intendeva opporre un totale rifiuto all’esercito e quindi rifiutava anche il servizio civile scegliendo di subire il carcere. Ma è stata anche ampiamente utilizzata da chi riteneva che fare fotocopie fosse meno disagevole che fare marce, opzione legittima e comprensibile ma non propriamente attinente alla coscienza.
    Relativamente alla questione specificamente medica ritengo che poiché nessuno è obbligato a fare il medico né tantomeno il ginecologo non si ponga un problema di coscienza ma piuttosto di coerenza.
    In altre parole se un professionista non ritiene di poter erogare alcune prestazioni consentite da leggi e codice deontologico e richieste dai pazienti, dovrebbe, a mio avviso, non mettersi nelle condizioni di doverle erogare, piuttosto che rifiutarne l’erogazione.
    Il problema ha anche, a mio parere, una più grave dimensione: se un ginecologo obiettore opera nel contesto di una struttura del SSN e oppone obiezione di coscienza all’interruzione di gravidanza, potrebbe impedire alle pazienti di esercitare un diritto riconosciuto dalla legge imponendo con un sopruso una sua scelta di coscienza a terzi. Ovviamente se in una struttura operano non uno ma parecchi medici che avanzano obiezione di coscienza il problema può diventare (come in più contesti è diventato) drammatico.
    Ritengo che avrebbe potuto essere utile e comprensibile un regime transitorio di obiezione per chi fosse stato “sorpreso” dalla 194 mentre stava già esercitando da anni la professione. Ma chi ha cominciato la carriera dopo l’entrata in vigore della 194 e non fosse stato disponibile a praticare interruzioni di gravidanza, avrebbe dovuto scegliere un’altra specialità o un’altra professione.
    Un’ultima nota: ritengo che la tendenza di pazienti ideologicamente connotati a rivolgersi a medici ideologicamente omologhi, sia pure non infrequente nella pratica, abbia effetti nefasti sulla correttezza del rapporto medico-paziente, rapporto già di per sé delicato e complesso. Rappresenta pertanto un problema piuttosto che una soluzione.

    1. La ringrazio per queste riflessioni che in generale condivido.
      Ho trovato molto interessante in particolare la sua osservazione: “Le norme deontologiche possano essere considerate, a mio parere, una forma di contratto tra il medico e la società. Il medico assume una serie di impegni (a rispettare la volontà delle persone che a lui si rivolgono, a curare senza discriminazioni, a operare rispettando criteri di appropriatezza e scientificità ….) e ne riceve una serie di contropartite (libertà di cura, possibilità di opporre il segreto professionale, possibilità di violare, a certe condizioni, la legge senza subirne conseguenze …).”
      Il problema sta qui nel capire quali sono i limiti di queste contropartite.
      Le rispondo però in merito alla nota che ha posto a fine commento. Non mi è chiarissimo cosa intende quando dice che la scelta di medici ideologicamente omologhi da parte dei pazienti sia un problema. Forse intende dire che i medici potrebbero rinforzare convinzioni errate nei pazienti oppure che potrebbero magari approfittare di certi pazienti per fini di lucro? Se è questo che intende, come ho scritto nell’articolo, penso che ci dovrebbero comunque essere dei limiti nell’esercizio della pratica medica e nella scelta del medico curante, ovvero il rifiuto di teorie non supportate da studi scientifici validi e di argomenti non adeguatamente giustificati.

  3. Credo utile partire da un paio di esempi per chiarire quanto ho scritto circa l’omologia ideologica tra medico e paziente
    Un soggetto crede nella medicina naturale ed è affetto disturbi derivanti da tumore non ancora diagnosticato. Si rivolge, per omologia, ad un medico che pratica attivamente la medicina naturale. Credo sia plausibile ipotizzare che potrebbe subire ritardi diagnostici ed ottenere indicazioni terapeutiche meno appropriate di quelle che avrebbe ottenuto da medici non ideologicamente orientati.
    Analogamente potrebbe essere penalizzata una gravida affetta da patologie per cui l’interruzione di gravidanza può costituire una scelta terapeutica se decidesse di rivolgersi ad un ginecologo antiabortista in quanto ella stessa è ideologicamente contraria all’aborto.
    Le mie affermazioni sul tema derivano da una riflessione sul concetto di autonomia del medico rivendicata dall’art. 4 del Codice Deontologico a garanzia del Paziente Nella totalità dei commenti che conosco i pericoli per l’autonomia sono identificabili come esterni al medico (sostanzialmente il lavoro dipendente con la sua organizzazione e le sue gerarchie). Se ne dovrebbero peraltro aggiungere altri quali, ad esempio, il rapporto con l’industria del farmaco. Viene invece del tutto trascurata la possibilità che le limitazioni all’indipendenza abbiano origine interna al medico stesso ossia, in primo luogo, l’ideologia che, se entra nell’attività professionale, finisce per condizionarla ed orientarla.
    Il paziente ha certamente diritto ad avere delle convinzioni ideologiche e ad applicarle alle proprie condotte di vita ed alla gestione delle propria salute (sempre che non contrastino con la legislazione vigente). Egli ha però diritto di rivolgersi a un medico che operi senza preclusioni o limitazioni ideologiche e possa quindi individuare e proporre tutte le possibili scelte diagnostiche e terapeutiche che abbiano fondamento scientifico.
    Queste considerazioni mi hanno indotto a ritenere inappropriata la creazione di canali terapeutici differenziati per abortisti e per antiabortisti.
    Per questi stessi motivi ho sostenuto che non dovrebbe esercitare come ostetrico-ginecologo chi rifiuta di praticare (nei termini e con le modalità legali) le interruzioni di gravidanza.
    Quest’ultima affermazione potrebbe condurre alla conclusione che ritengo obiezione di coscienza ed ideologia sostanzialmente equivalenti. Non è così anche se mi rendo conto di non possedere gli strumenti per circoscrivere adeguatamente i due concetti. Lascio quindi il compito a chi ha maggiori conoscenze e frequentazioni filosofiche e bioetiche.
    Torno sul primo quesito posto: “quali sono i limiti di queste contropartite?” . La domanda è complementare -credo- a: “Quali sono gli impegni?”. Se vale l’interpretazione del codice deontologico come risultato di un contratto sociale credo che i limiti non possano che essere definiti in relazione alla forza contrattuale dei contraenti. Come credo di aver ricordato che, sino ad una certa data, l’interruzione di gravidanza veniva punita dal codice deontologico. Successivamente è stata deontologicamente ammessa e il rifiuto di esecuzione ridotto a caso di coscienza personale

    1. La ringrazio per la chiarificazione. Comprendo i suoi dubbi e condivido la preoccupazione per le limitazioni all’indipendenza che potrebbero scaturire da ideologie non giustificate da parte del medico, però credo anche che si tratti di problemi in qualche modo evitabili.
      Riguardo al caso del medico che prova a curare una persona affetta da tumore tramite cure naturali senza validazione scientifica, l’unica cosa che si può concludere è che sta agendo in maniera contraria alla deontologia medica, per cui l’obiezione di coscienza non è giustificata e quindi non è nemmeno giustificata la scelta di questo medico da parte del paziente. Come ho scritto nell’articolo, credo che esistano comunque dei limiti piuttosto ragionevoli che si potrebbero porre, e che in parte già esistono, sia per quanto riguarda il medico nell’esercizio della sua professione sia per quanto riguarda il paziente nella scelta del medico stesso. Uno di questi è proprio il fatto di operare delle scelte razionalmente giustificabili. Per altro, ci si potrebbe anche chiedere come sia possibile che una persona sia riuscita ad ottenere la laurea in medicina e l’abilitazione alla professione medica mantenendo queste credenze. Forse c’è qualcosa che non va nel processo di formazione dei medici?
      Riguardo invece alla donna gravida affetta da patologie, si può dire che se la donna in questione è antiabortista e decide di rivolgersi appositamente ad un medico antiabortista, significa che lei per prima non considera l’aborto una valida soluzione terapeutica in termini generali. Quella soluzione è già esclusa nella scelta del medico. Pertanto, il medico, non menzionandole l’aborto, non sta violando la propria deontologia ma, al contrario, dal suo punto di vista e dal punto di vista della paziente, la sta rispettando. Proprio proporre l’aborto, in questo caso, sarebbe una violazione della deontologia medica perché esso non è considerato una forma di cura legittima né dalla donna, né dal medico, e non per ragioni basate su considerazioni antiscientifiche, come nel caso precedente, ma per ragioni etiche razionalmente difendibili.

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