– di Demetrio Neri –
Vorrei esporre alcune considerazioni sul tema proposto da Massimo Sartori circa il valore delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) nel caso della demenza. Premetto che io condivido l’impostazione data al tema da Dworkin, ma non argomenterò ulteriormente in positivo questa mia scelta (personale, prima che teorica), la assumo di default e provo a difenderla da alcune delle obiezioni che, a partire da Rebecca Dresser, sono state avanzate in contrario.
La prima obiezione sostiene l’esistenza di una asimmetria epistemica tra il momento in cui vengono redatte le DAT e il momento in cui dovrebbero essere applicate. Senza dubbio l’asimmetria esiste, ma – a parte che può essere depotenziata ricorrendo, ad esempio, alla pianificazione anticipata delle cure – l’obiezione costruita su di essa (nota anche come “ora per allora”) mi è sempre apparsa troppo generale e generica: a ben vedere, infatti, riguarda la nozione stessa di direttive anticipate, quale che sia la condizione nella quale dovrebbero trovare applicazione, e, al limite, qualunque decisione noi prendiamo per il futuro. Di recente, si è tentato di sostanziare e precisare questa obiezione generica ricorrendo alla nozione di <<esperienza trasformativa>>, proposta qualche anno fa da L. A. Paul nell’ambito della teoria delle decisioni razionali.[1] In sintesi, la locuzione indica esperienze che alterano in modo sostanziale chi siamo e come comprendiamo noi stessi e il mondo e L.A. Paul sostiene che alcune delle decisioni particolarmente significative che prendiamo nella vita sono molto problematiche da giustificare da un punto di vista razionale. Mancheremmo, infatti, delle informazioni necessarie affinché la decisione di accedere a quel tipo di esperienza abbia il crisma di una decisione razionale, perché quelle esperienze trasformative sono il risultato della nostra decisione e non abbiamo nessuna idea di cosa significa viverci dentro. Così accade – sto riassumendo un discorso ben più complesso – con la decisione di diventare genitori; oppure con quella di diventare astronauta; o ancora (come si è sostenuto di recente[2]) con quella di accedere alle (futuristiche) tecnologie di potenziamento delle caratteristiche fisiche e psichiche degli esseri umani; e infine col caso della demenza, come ha fatto E. Walsh in un articolo nel quale sostiene che <<il processo della demenza progressiva è epistemicamente e personalmente trasformativo, poiché altera la nostra cognizione, la nostra prospettiva sulla vita, su noi stessi e sugli altri>>; e ne trae la conclusione che in questi casi le direttive anticipate non dovrebbero avere alcun peso, anzi non dovrebbero neppure essere lasciate: <<Come possiamo eticamente prendere decisioni riguardanti il nostro futuro io, il vivere con la demenza, quando questo futuro io è epistemicamente e personalmente inaccessibile a noi?>> [3]
Il tentativo di Walsh di dare sostanza alla tesi di Dresser ricorrendo alla nozione di esperienza trasformativa presenta almeno due aspetti che lo rendono assai poco convincente. In primo luogo, la caratteristica fondamentale dei primi tre esempi sopra riportati (che qui non posso discutere) è che l’esperienza trasformativa cui si va incontro è una conseguenza diretta della nostra decisione: noi decidiamo di diventare genitori, di diventare astronauti, di potenziare le nostre capacità. Il punto è che questa caratteristica manca nel caso della demenza: nessuno di noi decide di accedere allo stato di demenza, ci capita (purtroppo), non è certo una conseguenza della nostra decisione di redigere direttive anticipate.
In secondo luogo, che il “vivere con la demenza” sia una esperienza personalmente inaccessibile prima di esserci dentro (e non per nostra decisione) è certamente (e banalmente) vero; ma non è del tutto vero che, da un punto di vista epistemico, questa condizione ci sia del tutto ignota. Le conoscenze in proposito sono ormai abbastanza diffuse, anche nella forma narrativa dei romanzi o dei film, e alcuni di noi hanno anche esperienze, sia pure indirette, per quel che è capitato a familiari o amici. Gli stessi autori ai quali ci stiamo riferendo sono prodighi di informazioni su quel che significa “vivere con la demenza”, descritta talvolta come una forma di esistenza spaventosa e infelice, ma talaltra, e forse più spesso, in termini di una vita che (almeno fino a un certo punto) consente di godere di piccoli piaceri, gioie, relazioni con altri ecc.
L’inciso “almeno fino a un certo punto” vuole richiamare l’attenzione sul fatto che la demenza è una condizione progressiva, i cui vari stadi si distendono (e con grande variabilità individuale) su un continuum lungo il quale è difficile tracciare nette linee divisorie, un po’ come accade al crepuscolo, nel passaggio dal giorno alla notte. Tuttavia, siamo sempre capaci di distinguere il pieno giorno dalla piena notte e cioè, fuor di metafora, la condizione in cui i danni prodotti dalla malattia sono tali da portare a chiederci se la persona in demenza avanzata è la stessa persona che ha redatto le direttive anticipate. E’ questo della persistenza dell’identità personale, non quello del deficit di informazione, il problema cruciale: secondo Dresser, la persona su cui dovrebbero essere applicate le direttive anticipate non è la stessa persona che le ha redatte e quindi metterle in atto è come voler disporre su altri, dunque una forma intollerabile di schiavitù: <<La sostanziale perdita di memoria e gli altri cambiamenti psicologici possono produrre una nuova persona la cui connessione con la precedente potrebbe essere meno forte, in effetti non più forte di quella tra voi e me. Chi sottoscrive questa concezione dell’identità personale può concludere che le precedenti scelte di Margot mancano dell’autorità morale di controllare quel che avviene a Margot in stato di demenza.>>[4] Come è noto, sul tema dell’identità personale esiste una nutritissima letteratura e non è certo possibile accennarne in questa sede. Mi interessa rilevare solo un punto che emerge dalle parole di Dresser che ho messo in corsivo: esistono differenti concezioni dell’identità personale e solo chi sottoscrive quella preferita da Dresser può arrivare a quella conclusione e quindi astenersi dal redigere direttive anticipate. E chi non sottoscrive quella concezione? Questa domanda mi porta al mio ultimo punto.
Come mostra lo stesso titolo dell’articolo, l’interesse fondamentale di Rebecca Dresser nella sua critica all’argomento di Dworkin riguarda il come possiamo immaginare procedure o politiche pubbliche capaci di tener in conto delle complesse sfaccettature del problema, del suo carattere chiaroscurale, per così dire, che la studiosa esamina con dovizia di particolari. Io credo che un modo ci sia ed è ben esemplificato nella legge 219/2017, ispirata da un principio semplicissimo ma molto potente: quello della compatibilità tra visioni del mondo differenti. Questa legge non impone a nessuno di condividere una qualche visione del mondo o antropologia o concezione di cosa sia l’identità personale, stabilisce soltanto un ampliamento delle opzioni disponibili alle scelte individuali, un ampliamento compatibile con tutte le differenti autorappresentazioni della propria condizione esistenziale che le singole persone possono sviluppare in base ai propri valori e alla propria concezione della vita. E’ banale dirlo (ma è il caso di ricordarlo): nessuno è obbligato dalla mera esistenza di questa nuova opzione a redigere direttive anticipate; chi, ad esempio, preferisse continuare ad affidare la gestione delle proprie cure al personale sanitario e/o alla famiglia sarà libero di farlo. D’altro canto – e anche questo è banale ricordarlo – anche chi volesse fruire della possibilità di redigere direttive anticipate, ma fosse contrario per le sue personali credenze morali all’interruzione di questo o quel trattamento, oppure condividesse la tesi di Dresser sull’identità personale, non dovrebbe fare altro che lasciare specifiche disposizioni in merito: una legge ispirata dall’idea della compatibilità tra differenti credenze morali stabilisce la facoltà di dare disposizioni, ma non impone nulla quanto al loro contenuto. Così siamo tutti un po’ più liberi di prima e nessuno viene danneggiato: una nuova innocua libertà, dunque. E forse qui sta la radice ultima delle questioni in gioco: una società in cui le persone sono un po’ più libere e hanno più opzioni a loro disposizione per compiere scelte responsabili che riguardano questioni vitali, è una società cui una parte della cultura bioetica (non solo italiana) non guarda con particolare simpatia.
[1] Paul, L. A., Transformative experience, Oxford University Press, 2014
[2] Lyrescog D.M., McKeown A., “On the (non-) rationality of human enhancement and Transhumanism”, Science and Engineering Ethics,2022 (on line 1 nov. 2022).
[3] Walsh, E., “Cognitive transformation, dementia, and the moral weight of advance directives, The American Journal of Bioethics, 2020, 20(8) pp. 54–64.
[4] Dresser R., “Dworkin on Dementia. Elegant Theory, Questionable Policy, Hastings Center Report, 1995, p. 35.